Ordinazione Diaconale di Simone Maggi

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Ordinazione Diaconale di Simone Maggi

Ordinazione Diaconale di Simone Maggi
Duomo di Spoleto

14 marzo 2010, III di Quaresima


Un padre aveva due figli, nati dalla carne e dal sangue. Dalla carne: sorgente di  debolezza, e dal sangue: sorgente di orgoglio (Mt 26,41; Nm 35,33). Il più giovane, nella sua  carne, peccò per debolezza; il primogenito, nel suo sangue, peccò per orgoglio. Il primo  voleva cercare altrove una felicità che già possedeva: mancava di fedeltà; il secondo  voleva tenere per sé una felicità che invece doveva condividere: mancava di misericordia.


Il più giovane sbagliava per eccesso di serietà nel voler essere degno di suo padre, e  conobbe la vergogna, la caduta, la tristezza e le lacrime. Incurante di ciò che potesse  pensare il fratello, era giunto a mettere da parte anche il padre. E, figlio prodigo, partì per  un paese lontano, dove dissipò tutti suoi beni. Il più grande si preoccupava di servire  scrupolosamente il padre, e conobbe l’amaro rimprovero della gelosia svelata e  dell’egoismo messo a nudo. Avendo in realtà servito solo se stesso, non aveva alcuna  preoccupazione per il fratello che voleva partire e nessuna comprensione per la tristezza  del padre che vedeva il figlio allontanarsi. Suo fratello, un giorno, aveva voluto uscire; lui,  oggi, non vuole entrare. Anche Dio è circondato da figli che lo vogliono fuggire o che  rifiutano di tornare.

 

Allora il padre confessò tutto il suo amore per questo figlio senza amore: lui che non  osava chiamarlo con il nome dolce di “padre” e parlava del fratello dicendo “tuo figlio”, si  sente chiamare “figlio mio” e sente che il minore è chiamato “tuo fratello”.

Così siamo anche noi di fronte a Dio: davanti ad un padre, al “nostro padre”, che «sa di  che cosa siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (Sal 103, 14). Tanto fragili quanto  orgogliosi, tanto avari quanto prodighi; talvolta leggeri fino all’ingratitudine, altre volte seri  fino all’eccesso; senza mai finire di scoprire il suo l’amore o di rifiutarlo, lieti di accogliere  la gioia dei fratelli o capaci di respingerla.

Di fronte al peccato, ecco manifestarsi la tenerezza del Padre verso i suoi figli: per incontrarla e farne l’esperienza, era necessaria la rivelazione di Colui che ha visto il volto del Padre, che è disceso dal cielo per farcelo conoscere (cf Gv 1, 18; 3,13), nell’oggi della nostra vita. Perché “oggi” ci è rivelato l’amore compassionevole e misericordioso, l’amore del nostro Dio che colma e perdona.

È un dono senza misura e senza ripensamenti, è un amore che si manifesta nel rispetto pieno della nostra libertà: silenzio, pazienza, dolore che sa e attende e, più ancora di noi, soffre per l’abisso nel quale ci trascinano i nostri sbagli. Quando due esseri si separano, quello che soffre di più non è forse quello che ama di più? Ora, è Dio che ci ha amati per primo (cf 1 Gv 4,10), e ci ha amati fino a correre il rischio di perderci per sempre.

Ecco l’attesa del Padre che scruta pazientemente, ogni mattina, un piccolo segno da parte nostra, il minimo segnale di un ritorno; ecco l’accoglienza costante di un Dio che ci ama senza riserve, che conosce tutte le nostre colpe ma che non vede se non l’affezione infinita che nutre per ciascuno; ecco la festa con l’abito nuziale che ricopre le ferite della strada percorsa e l’anello prezioso per apporre il sigillo sul documento che ci assicura il ritorno in possesso dell’eredità dei santi nella luce (cf Col 1,12).

Sì, ci voleva un Dio per dirci cosa succede nella casa del Padre quando un figlio vi fa ritorno: «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.» (Lc 15, 7). Chi ci separerà dunque dall’amore di Dio? (Rm 8,35). Ci crediamo veramente che un giorno Dio stesso ci avvolgerà con il suo abbraccio? (cf Ap 21,4). In quel giorno, non saremo giudicati soltanto sull’amore, ma saremo giudicati con amore.

Di questo amore infinito e fedele, caro Simone, tu divieni oggi destinatario privilegiato e ministro efficace, chiamato mentre ricevi l’Ordine sacro del Diaconato a comunicare mirabilmente ad un mistero di povertà, di ricchezza e di carità.

Mistero di povertà, innanzitutto. Di quella povertà che Cristo stesso ha assunto nella nostra condizione umana, di quella povertà che è il terreno unico e fecondo del dono di Dio, ammirabile e impenetrabile mistero d’amore. Tu sei qui questa sera con tutto il carico della tua povertà. Non la tua preparazione ti rende degno di questa iniziativa; non la scienza teologica acquisita in questi anni di studio ti rende capace di accogliere il dono della sapienza dello Spirito Santo; non sono nemmeno le tue qualità umane e la tua bontà che ti fanno capace di accogliere e di assumere la parola santificante e creatrice di Dio che ora sta per farti diventare per sempre suo ministro. È solo la tua trepidante e consapevole piccolezza, è solo la tua povertà che può essere terreno fecondo per l’abbraccio di Dio. Ed è solo nella misura in cui anche tu, come ogni sacerdote, come ogni vescovo, come tutta la Chiesa, saprai di continuo riscoprire questa nudità dinanzi al dono incommensurabile e gratuito di Dio e saprai permanere in questo spirito di povertà, che sarà fecondo ed efficace il tuo ministero.

Ma ciò che ora noi compiamo, ciò che si attualizza dinanzi al nostro sguardo, se parte da un mistero di povertà diventa un mistero di ricchezza, così come il Cristo che si è fatto povero affinché noi diventassimo ricchi (cf 2 Cor 8,9). Quanto ora ti viene conferito ti inserisce nel collegio presbiterale, cui è affidato il servizio e l’amministrazione di tutta la mirabile ricchezza salvifica che Cristo ha dato alla sua Chiesa; è una stupenda ricchezza che fa di te, povera creatura, sacramento vivente della presenza operante di Cristo Gesù in mezzo a noi. E questo fa sì che tu, povero uomo, sia capace di dare la prova suprema che è quella di amare Cristo in totalità di dedizione e di servizio per tutta la vita. Di questa ricchezza oggi tu diventi ricco in modo permanente e indelebile.

No, non è una funzione transitoria quella che ti viene affidata, non è per una deputazione della comunità che tu vieni chiamato ad essere un giorno sacerdote; è Cristo Gesù che ti chiama e determina e specifica la chiamata con la quale già ha fatto di te un membro del popolo di Dio. E questa ricchezza incommensurabile pone sulle tue labbra le parole stesse di Cristo, che ti dà come già a Pietro la capacità salvifica di dire: «Non ho né oro né argento, ma quello che ho te lodò: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina» (At 3,6).

Questa grande ricchezza, però, non ti separa dalla comunità, dal corpo di Cristo. Anzi fa di te e del tesoro che ricevi nella tua anima “il luogo” del potere salvifico e del servizio d’amore che Cristo ha lasciato i suoi. Non ti separa anche se ti distingue; e ti mette al centro, con gli apostoli e i loro successori, della vita del popolo di Dio e fa sì che in te si concentri la responsabilità, la grandezza, il formidabile peso della missione della Chiesa, che è quella di rendere presente Gesù, operante nel suo amore che salva e redime e attraverso il mistero della croce porta alla partecipazione della sua gloria di risorto. È in tal modo, allora, che questo mistero di povertà e di ricchezza che si compie sotto il nostro sguardo diventa mistero di carità.

Perché Gesù ha posto in chiara e precisa relazione il ministero apostolico con l’effusione della carità. Un amore che nel sacerdote in un modo tutto speciale deve diventare totalità, ricerca dell’assoluto evangelico. L’assoluto evangelico che egli è chiamato a vivere – la povertà, la castità e l’obbedienza ecclesiale – non è determinato da una legge estrinseca soltanto, è una esigenza dell’appello di Dio, è un dono del suo amore che è immenso in noi e ci chiede soltanto un’umile, costante, dinamica fedeltà. Sicché il nostro sacerdozio non può essere visto semplicemente come qualcosa che una volta nato rimane fermo e immobile e incancellabile in noi, ma va visto più ancora come un continuo crescere in questa realtà sacerdotale che una volta che ci ha afferrati nell’amore di Cristo ci deve condurre alla sequela generosa, in una scelta di una totalità piena e completa che sia servizio e amore di lui, manifestato e completato nel servizio e nell’amore degli altri.

Mistero di trepidante povertà il tuo, caro Simone, e il mio, che ho il peso formidabile di comunicarti il dono del Signore. Mistero di ricchezza per questa Chiesa di Spoleto-Norcia che ti accoglie oggi nel suo Presbiterio. Mistero di ricchezza per la tua anima che ormai dovrà essere tutta tesa, tutta carica dell’amore di Dio che diventa amore dei fratelli. Mistero dunque di carità. E soltanto nella misura in cui saprai essere fedele a questa carità, che è amore di Cristo e si traduce nell’amore di comunione con la Chiesa tutta – dal Vescovo al Presbiterio al popolo di Dio – tu sarai fedele, umilmente ma gioiosamente e costantemente, al mistero di povertà, di ricchezza e di amore che ora si compie dentro di te.

Prima dunque di procedere all’imposizione delle mani, caro Simone, il Vescovo ti rivolge in suo nome la domanda che Cristo ha posto a Pietro: «Mi ami tu?» (cf Gv 21, 15-17). Nascano dalla tua risposta – che ora Gesù sacerdote pone nel tuo essere e nella tua anima che esulta in una realtà di mistero – la povertà, la ricchezza e l’amore che faranno di te il suo sacramento vivente per la consolazione della Chiesa e la salvezza dei fratelli.

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