In una notte come questa – la notte di Natale – si rischia di vivere una sproporzione tra sentimenti e parole, tra ciò che abbiamo dentro e quel poco che riusciamo ad esprimere, tra quanto vorremmo dire e sentire per corrispondere alla grandezza del mistero e quanto in realtà diciamo e viviamo.
Moltiplichiamo gli aggettivi, nel tentativo di comunicare sentimenti che non giungiamo del tutto a fare nostri: parliamo di auguri sinceri, cordiali, fervidi, e i superlativi tradiscono la precarietà degli affetti, la distanza tra le parole e le emozioni che si vorrebbero davvero trasmettere. Esprimiamo voti di salute, pace, felicità , ma non di rado la lingua tradisce la coscienza della caducità di queste parole. Abbiamo insomma la sensazione imbarazzante di indulgere ad un verbalismo di maniera; avvertiamo che il cuore non segue come dovrebbe e che le parole non si adeguano.
Eppure, malgrado tutto, non ci rassegniamo completamente a questa svalutazione dei sentimenti, comprendiamo che si dovrebbe ritrovare la gioia di qualcosa di vero, di genuino, di semplice. È probabilmente anche per questo che siamo venuti in chiesa questa notte, con qualche speranza nascosta sotto la cenere di stanchezze e di delusioni: vorremmo che qualcosa accadesse, che il mistero si rivelasse a noi, che potessimo ritrovare l’innocenza e la semplicità dell’infanzia.
Questi timori, oggi abbastanza comuni, non sono da respingere come tentazioni, perché hanno alcune ragioni di essere. Anzitutto la distanza storica che ci separa dal giorno della nascita di Gesù: sono 2019 anni, e sono molti; con i tantissimi eventi intervenuti in questi secoli e specialmente con l’odierna secolarizzazione, con l’accelerarsi delle vicende degli ultimi anni, con il consumismo, sembra che il Natale di Gesù appartenga quasi alla preistoria. E così si corre il rischio di commemorarlo come un evento del passato, difficilmente recuperabile nella sua verità originaria.
C’è poi la distanza derivante da quella che potremmo chiamare una straordinaria concentrazione della storia umana in un fatto singolare che, con il nostro senso di razionalità e di universalità , fatichiamo a comprendere. E ci domandiamo: possibile che proprio in quel tempo, in quel luogo, a Betlemme, il cammino dell’uomo nel tempo abbia vissuto il suo momento decisivo, determinante? Anche se prendiamo in considerazione non solo la nascita ma – come ci insegna la Chiesa – l’intera vita di Gesù (la sua predicazione, i suoi miracoli, la sua passione, morte e risurrezione), si tratta pur sempre di uno spazio ristretto, un momento lontano, una cultura molto diversa dalla nostra. È possibile che da queste lontananze storiche, dalla vicenda di una singola persona, dipenda tutta la storia del mondo, come professiamo questa sera adorando il bambino Gesù?
I testi biblici che sono stati proclamati hanno proprio il coraggio di annunciare che Dio stesso, Colui che è ragione e senso del mondo, che è luce e vita della storia, si è manifestato in una determinata stagione e in un luogo specifico rivestendo la nostra carne mortale. E questo luogo è Betlemme, è Gesù di Nazaret, è la sua croce, è il cenacolo, è il sepolcro. Là c’è stata come una grande deflagrazione spirituale, che da allora rischiara e illumina e si fa contemporanea a tutti i tempi, tocca tutte le situazioni umane e le vivifica.
Questo è il senso del Natale e così vogliamo celebrarlo: non come un ritorno alla nostra infanzia, come un rimemorare un evento lontano, bensì come un avvenimento che ci raggiunge. Non siamo noi che, con uno sforzo di memoria e di immaginazione, cerchiamo di raggiungere devotamente la mangiatoia di Betlemme o il cenacolo o la croce, ma sono Betlemme, il cenacolo, la croce, che ci raggiungono questa notte.
Il sole della storia, che è Gesù nato a Betlemme e morto sulla croce, ci illumina, ci riscalda, si fa presente a ogni nostro giorno e a ogni nostra notte; per lui non c’è ombra né tenebra, anzi questa notte è più chiara della luce sfolgorante del sole: Gesù bambino nasce per noi; si accosta a noi per rischiarare la nostra vita, per riattizzare i nostri sentimenti spenti, per ridare vigore alle carte ingiallite della nostra memoria. È lui che scende, che fluisce dentro di noi per rinnovarci interiormente con la grazia del suo Spirito.
Con una fede matura e adulta noi vogliamo riconoscere, nel Bambino del presepio, la luce di questo mondo, vogliamo accogliere la vita che restituisce la speranza a questa civiltà pericolante e malata.
A lui ci affidiamo, e nel suo nome ci scambiamo gli auguri di gioia, di pace, di serenità , resi tangibili non dalle nostre parole più o meno sottolineate o ripetute, ma dalla forza della sua presenza che ci avvolge. Perché la nascita di questo Bambino ha cambiato ogni cosa. Però questo splendore della storia, che si incammina verso il Volto luminoso di Dio, è ancora uno splendore discreto e richiede la nostra attenzione, il nostro raccoglimento; domanda la venerazione e l’adorazione che Maria ci insegna. Perché, come diceva San John Henry Newman, Gesù «venendo nel mondo, non si è agitato, non ha fatto rumore, non ha fatto sentire la sua voce… Anche adesso è così: la sua voce è bassa, i suoi segni sono discreti, eppure chi ha fede non può non sentirlo, non può non avvertire che egli lo guida… Davanti alla vastità e al mistero del mondo che grava su di noi, è lecito pensare che non ci sia nulla quaggiù di slegato dalle altre cose, che gli avvenimenti apparentemente indipendenti tra loro possono avere un rapporto, possono far parte di un disegno preciso. E Dio ci insegna le sue vie nei comuni avvenimenti quotidiani… Basta che noi vogliamo soltanto aprire gli occhi», fare attenzione a questo Bambino che, in silenzio, senza far rumore, senza imporsi, con la semplicità disarmata dei bambini, viene in mezzo a noi per portarci lo splendore del Volto di Dio.
Buon Natale, fratelli e sorelle, nella luce e nella pace di Betlemme!