Ancora una volta abbiamo sentito il racconto di quei pastori che vegliavano di notte, facendo la guardia al gregge. Pastori, cioè gente semplice, gente che ha attese modeste, essenziali: la gente ha bisogno di pane che forse scarseggia, ama il denaro che è sempre poco, talora aspira a qualcosa di più alto, come per esempio alla libertà; la gente spera di star bene in salute, di avere un po’ di successo nella vita; la gente ama e gode delle amicizie, dell’amore, spera di uscire dalla mediocrità della propria condizione quotidiana, legata a un lavoro che incatena giorno e notte a uno stesso posto, impedendo di evadere, di uscire, di andare.
Così dobbiamo pensare i pastori: uomini semplici, con attese modeste e circoscritte e forse anche con qualche attesa più ardita. Ed ecco che a loro viene fatto un grande annuncio, un annuncio straordinario: «Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo» (Lc 2, 10). Gioia anzitutto, quindi soddisfazione dei bisogni, delle speranze che, una volta colmate, rallegrano. Gioia grande, che va al di là delle piccole soddisfazioni immediate, delle necessità elementari. Gioia collettiva, di tutto il popolo, che raggiunge i confini sociali, politici, che si allarga a vasti orizzonti.
Tale gioia ha un nome straordinario: «Oggi nella città di Davide è nato per voi un salvatore» (Lc 2, 11), dicono gli angeli. Salvatore significa risolutore di problemi gravi e difficili, significa uno capace di sciogliere i nodi complessi dell’esistenza, quei nodi gravi della società civile e politica che poi sfociano nelle guerre, nelle risse, negli egoismi, nelle divisioni che frantumano le comunità. Aggiunge l’evangelista che questo salvatore «è il Cristo Signore»: Cristo, cioè il Messia, l’atteso da secoli; Signore, cioè potente, divino. Le piccole attese quotidiane dei pastori sono superate dall’annuncio di grande gioia collettiva, di un salvatore definitivo e divino.
Proprio per questo ci colpisce la sproporzione tra tale annuncio e il segno che viene dato: «Questo sarà per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». Un bambino, quindi un essere fragile, imperfetto; avvolto in fasce, incapace di camminare, di muoversi, bisognoso di tutto e di tutti, completamente dipendente da altri, dai genitori; in una mangiatoia, non in una culla, perché è nato fuori casa, nell’estremo dell’indigenza: perché «per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2, 7).
Il Bambino è segno di un dono immenso. Come se non bastasse, per farci aprire gli occhi e il cuore alle meraviglie di Dio, l’annuncio si allarga ulteriormente: «Subito apparve con l’angelo una moltitudine immensa dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”» (Lc 2, 13-14).
Che cosa fanno i pastori di fronte alla sproporzione tra la vastità dell’annuncio, che abbraccia cielo e terra, e l’esiguità del segno, che è un bambino povero, inerme, quale noi contempliamo nel presepio? Vanno e vedono, dice il Vangelo. Non discutono, non dubitano, non sono increduli, non alzano le spalle, non recalcitrano perché non capiscono, ma ascoltano il cuore. Il loro cuore li avverte che c’è qualcosa di inverosimile in quanto sta accadendo, qualcosa più grande dell’intelligenza umana, e credono alle sorprese di Dio: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2, 15). I pastori, gente semplice, sanno che Dio è più grande di noi, che Dio sorprende sempre. E dopo aver visto il Bambino «tornarono, glorificando e lodando Dio» (Lc 2, 20), che aveva aperto loro gli occhi del cuore.
Anche noi, nella notte di Natale, possiamo essere sorpresi per la sproporzione che cogliamo tra la grandezza dell’annuncio che risuona nelle chiese e la nostra vita quotidiana che sembra sempre uguale, che non cambia e che, passate le feste, ci ritorna tra le mani con i suoi soliti problemi. E dunque, pur lasciandoci prendere dall’atmosfera magica del Natale, non ci sottraiamo al timore, al dubbio, alla paura, e anche alla domanda: «che senso ha questo annuncio per le realtà quotidiane e intricate, contorte, meschine come le nostre?».
I pastori ci invitano: fate un passo, andate a vedere, abbiate il coraggio di credere, muovetevi con il cuore, aprite il cuore e ascoltatelo, in modo da poter poi esclamare: «Mio Dio, quanto sei grande nel segno del Bambino, quando sei grande nella mia vita, nei tanti piccoli segni della mia storia! Aprimi gli occhi perché io possa sempre vedere i piccoli segni della mia fede, del mio cammino di Chiesa, del mio semplice cammino di parrocchia, negli eventi che mi circondano; aprimi gli occhi perché legga in tutto la tua salvezza che mi viene incontro. Io so, Signore, che la tua grandezza senza limiti è qui e mi raggiunge adesso, nel mistero dell’Eucaristia, nel pane eucaristico che è segno della tua presenza viva, nello Spirito Santo che mi riempie il cuore di fiducia e di pace».
Questa notte, in modo particolare, siamo invitati ad aprire i cuori alla fede, alla speranza e alla carità, per mezzo delle quali possiamo leggere nei piccoli segni del quotidiano il dono infinito di Dio che ci viene incontro. «Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi», ci ricorda il piccolo principe. Quale dono chiederemo dunque al Bambino di Betlemme? Un cuore capace di vedere e di capire, perché la nostra gioia sia piena (cf Gv 16, 24) e la nostra vita feconda.