La grande festa dell’Assunta è per tutti noi un invito forte a guardare in alto, in cielo, là dove sta la Vergine Maria nella gioia più piena e nella gloria più splendida. Uno sguardo di contemplazione ammirata e di affetto devoto e filiale. È la parola stessa di Dio che abbiamo ascoltato a trasportarci in alto, a farci puntare gli occhi oltre la scena di questo mondo.
Così inizia il brano dell’Apocalisse di san Giovanni: «Si aprì il santuario di Dio nei cieli e apparve l’arca dell’alleanza» (Ap 11, 19). Ed ecco un segno grandioso: una donna tutta luce e splendore. Ma ecco subito un altro segno: un enorme drago rosso, la cui coda trascina giù un terzo delle stelle del cielo e le precipita sulla terra. È il segno delle tenebre e del male, il segno della morte. Si profila uno scontro terribile: il drago minaccia la donna che sta per partorire, perché vuole divorare il bambino appena nato. Ma il figlio viene subito rapito verso Dio e verso il suo trono e la donna fugge nel deserto, ove Dio le ha preparato un rifugio. È la vittoria: della luce sulle tenebre, della vita sulla morte, del bene sul male. E lassù, in alto, in cielo, una voce proclama: «Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo».
Di questa potenza di Cristo ci parla la seconda lettura, per bocca dell’apostolo Paolo (1 Cor 15, 20-26): «Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti». Ma non solo lui è il risorto, continua Paolo: tutti noi siamo chiamati a condividerne la vittoria e la gloria. Scrive infatti: «Poiché a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo».
C’è però una condizione per condividere il destino di Cristo risorto: bisogna “essere di Cristo”, appartenere a lui nella fede e nella carità. E noi sappiamo che nessuna creatura appartiene a Cristo così profondamente come Maria, la vergine madre, la piena di grazia, l’immacolata, l’assunta nella gloria di Dio non solo con l’anima ma anche con il corpo. Così, solo con uno sguardo in alto, con gli occhi della fede rivolti al cielo, ci è dato di immergerci in una bellezza spirituale che non ha l’eguale quaggiù: contemplare cioè la vittoria di Cristo risorto e di quanti sono con lui, a cominciare – in modo sinora unico – con Maria accolta in cielo con la realtà umana del suo corpo verginale e materno.
E ancora in alto, al cuore onnipotente e amoroso di Dio si rivolge Maria, della quale il vangelo di oggi ci ha ricordato la visita alla cugina Elisabetta (Lc 1, 39-56). Quello di Maria è uno sguardo orante, tutto intessuto di gioia, di gratitudine, di riconoscimento della grandezza di Dio, di una grandezza che gli fa volgere gli occhi misericordiosi alla piccolezza dell’umile ragazza di Nazareth. È il cantico così bello e profondo del Magnificat: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva… Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome…».
Sentiamola così, carissimi, la festa dell’Assunta: come la solennità mariana che in una maniera più intensa ci spinge a guardare in alto, a levare il nostro sguardo al cielo. Perché questi sono i cristiani: gente chiamata a guardare in alto e a trarre dall’alto, da Dio, la forza della fede e della testimonianza, con una vita generosa e coerente.
Come non pensare, alla luce di queste affermazioni, a tanti nostri fratelli e sorelle cristiani chiamati in questi tempi a seguire Gesù subendo – inermi – la violenza, la persecuzione e anche la morte in nome della fede che professano?
Per questo anche noi questa mattina, insieme con tutte le Chiese che sono in Italia e in comunione con Papa Francesco pellegrino in Corea, «non possiamo tacere» (cf Nota della Presidenza della CEI, 2 agosto 2014) e vorremmo che la nostra voce giungesse a scuotere l’Europa, distratta e indifferente, cieca e muta davanti alle persecuzioni di cui oggi sono vittime centinaia di migliaia di cristiani. L’Occidente non può continuare a volgere lo sguardo altrove, illudendosi di poter ignorare una tragedia umanitaria che distrugge gli stessi valori che l’hanno forgiato. Se la mancanza di libertà religiosa – fondativa delle altre libertà umane – impoverisce vaste aree del mondo, un autentico Calvario accomuna i battezzati di Paesi come l’Iraq e la Nigeria, dove sono marchiati per la loro fede e fatti oggetto di attacchi continui da parte di gruppi terroristici; scacciati dalle loro case ed esposti a minacce, vessazioni e violenze, conoscono l’umiliazione gratuita dell’emarginazione e dell’esilio fino all’uccisione; le loro chiese sono profanate e distrutte da un integralismo che nulla ha di autenticamente religioso. In queste zone la presenza cristiana – la sua storia più che millenaria, la varietà delle sue tradizioni e la ricchezza della sua cultura – è in pericolo: rischia l’estinzione dagli stessi luoghi in cui è nata, a partire dalla Terra Santa.
Abbiamo letto sui giornali che a Mosul, in Iraq, le case dei cristiani vengono segnate da una N in rosso, iniziale della parola “nasrani” che significa appunto “cristiani”, come in tempi funesti anche in Europa si segnavano le case di quanti non appartenevano alla razza che si riteneva pura e perfetta… E se anche noi – che abbiamo la libertà di professare la nostra fede, tante volte tiepida e superficiale – mettessimo idealmente sulle porte delle nostre case una N rossa, per dire chi siamo e chi vogliamo essere? E per non dimenticare le parole di Gesù: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell’uomo quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi» (Lc 9, 26).
Che cosa possiamo fare? Non possiamo tacere, e vogliamo che la preoccupazione per il futuro di tanti fratelli e sorelle si traduca innanzitutto in impegno ad informarci sul dramma che stanno vivendo, puntualmente denunciato dal Papa che ha affermato: «Ci sono più cristiani perseguitati oggi che nei primi secoli». Tutto questo, ha scandito, «offende gravemente Dio e l’umanità. Non si porta l’odio in nome di Dio!».
E poi possiamo impegnarci seriamente a “vivere bene”, coltivando dentro di noi e diffondendo attorno a noi una autentica pace. La bontà sembra ormai un valore trascurato nei rapporti quotidiani, troppo spesso improntati alla competizione, all’aggressività, al superamento degli antagonisti. Eppure, nella nostra coscienza avvertiamo che questo modo di vivere è sbagliato, ci crea disagio e sofferenza; sentiamo che questo stile di vita è disumano e faticoso. Perché portiamo dentro di noi, incancellabile, l’aspirazione alla bontà, alla fraternità, alla condivisione; sogniamo un mondo più amorevole, vogliamo più dolcezza, più buon cuore, più generosità, più giustizia; desideriamo poter essere di aiuto agli altri e poter chiedere aiuto quando ne abbiamo bisogno; fare finalmente qualcosa senza calcolo, anche contro il nostro intessesse immediato. Insomma, a dispetto delle guerre, degli attentati, degli assassini, dei crimini, di cui stampa e televisione ci rendono quotidianamente sconsolati testimoni, la bontà continua a suscitare interesse e a motivare l’esistenza. Perché essa è più profonda del male più profondo. Solo la bontà, infatti, è la forza che permette agli uomini di vivere in pace gli uni accanto agli altri, senza nuocersi, rispettosi e benevoli; è la forza che al di sopra del dovere e della virtù austera può condurre gli uomini all’indulgenza reciproca, alla buona volontà, alla cortesia, al perdono e alla riconciliazione.
E finalmente possiamo – e dobbiamo – pregare con insistenza e fiducia, portando davanti al Signore tanta cattiveria e tanta sofferenza, implorando il dono della pace su popoli e nazioni, chiedendo che il suo Spirito illumini le menti di quanti reggono le sorti dell’umanità ed apra per tutti cammini di giustizia, solidarietà e progresso.
Alla Vergine Maria, Regina della pace, affidiamo la nostra preghiera. L’esempio ci viene ancora da lei, dal suo Magnificat: i suoi occhi e il suo cuore si aprono sulla storia del popolo eletto (di tutti i popoli del mondo, dell’umanità intera), e la vedono nello splendore della verità e della giustizia di Dio: una storia intessuta di bene e di male, di grazia e di miseria morale, di generosità e di egoismi: una storia di cui primo e ultimo “protagonista” è Dio e il suo amore giusto e misericordioso.
Sia dato anche a noi di vedere che Dio «ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, … ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi». Soprattutto, sia dato a noi e a tutta l’umanità di vedere e di sperimentare «di generazione in generazione la sua misericordia».