Omelia dell’Arcivescovo nella Notte di Natale
Spoleto, Basilica Cattedrale, 24 dicembre 2022
La prima domanda che si legge nella Scrittura è rivolta da Dio all’uomo: «Adamo dove sei?» (Gn 3, 9). Dio cerca l’uomo e tocca all’uomo mostrarsi, rispondendo: «Eccomi, sono qui». Ma nella Scrittura si legge spesso anche la domanda dell’uomo a Dio: «Signore, dove sei?». E Dio risponde: «Eccomi». È una ricerca incessante in ambedue le direzioni. Dio non cessa di mostrarsi all’uomo e continuamente ripete: «Sono qui». È questo il nome rivelato a Mosè; il nome del Figlio di Dio fatto uomo: Emmanuele, Dio con noi; ed è ancora il nome del Signore risorto, come si legge nel vangelo di Matteo: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (28, 20). Il nome di Dio è sempre: «Io sono con voi».
Per cercare l’uomo, Dio si è fatto “carne” (cf Gv 1, 14), come dice l’evangelista Giovanni. E noi nel Natale contempliamo, stupiti e ammirati, questo mistero. Si direbbe che a questo punto la ricerca dell’uomo da parte di Dio sia compiuta. E in un certo senso di fatto lo è: lo è come presenza fra noi (l’incarnazione) e come manifestazione del suo amore per noi (la Croce). E tuttavia la ricerca dell’uomo da parte di Dio è incessante, perché vuole illuminare ogni uomo che viene al mondo e rinnovare la sua presenza in ogni tempo e in ogni cultura (cf Gv 1, 9). Ma anche la domanda dell’uomo a Dio è incessante. Dio è con noi, ma non si lascia imprigionare da noi. L’incontro con Lui non spegne il desiderio di conoscerlo, ma lo acuisce. E le risposte che Egli ci dona aprono sempre verso nuove domande. Il Signore, infatti, non è una persona che possiamo trattenere, ma un viandante che cammina sempre oltre, perché racchiude un mistero insondabile che non può essere circoscritto nell’orizzonte della nostra comprensione.
Perciò, se è incessante la manifestazione di Dio, incessante è anche il desiderio dell’uomo di conoscerlo e di incontrarlo, perché umanamente insaziabile è la sete di verità, di amore e di bellezza che porta in sé. Perciò l’uomo si definisce come pellegrino che sempre cammina, in continua ricerca. Ciò non significa che non abbia delle certezze. Ma sono proprio le certezze che si aprono sempre su nuove domande e nuovi desideri!
Il racconto lucano del Natale si conclude con una bellissima annotazione mariana: «Tutti quelli che li udivano, si stupivano delle cose dette dai pastori. Maria, invece, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (2, 18-19). Anche la Madre ha bisogno di sentire le parole che spiegano l’evento che vede e vive: «un bambino avvolto in fasce». Parole che custodisce nel cuore, in un raccoglimento interiore e intelligente. Il verbo custodire, infatti, dice un’attenzione prolungata, una cura che nulla vuole perdere e nulla cambiare. Ancora più interessante però è il verbo meditare, che significa confrontare, comparare, nello sforzo intenso di comprendere la logica profonda, la direzione e la verità di cose che possono sembrare slegate o addirittura in contrasto fra loro. È appunto ciò che deve fare Maria sentendo nell’annuncio dell’angelo, da una parte, parole che proclamano la gloria del bambino e, dall’altra, vedendo «un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’alloggio». È la tensione fra grandezza e piccolezza, gloria e povertà, che costituisce l’ossatura del mistero cristiano. Con questa semplice annotazione Luca presenta Maria come la figura esemplare del discepolo e della Chiesa, sempre in ascolto e sempre in cammino: non un discepolo che anzitutto parla, ma ascolta; non un discepolo che già sa, ma che deve camminare nella comprensione, illuminando con la parola ascoltata (che viene da Dio) ciò che vede e vive. Per capire l’evento di cui Maria è testimone – un evento fatto insieme di gloria e di potenza – ella dovrà camminare con Gesù, sentendo le sue parole e osservando i suoi gesti, la sua storia, fino ai piedi della Croce.
Dunque, la ricerca di Dio da parte del cristiano non conosce interruzioni, proprio perché Dio è vicino, tanto che il vero problema non è dove trovarlo (lo sai, è qui), ma come riconoscerlo. Quanto questo sia vero lo dice l’episodio dei due discepoli di Emmaus: incontrano Gesù che si unisce al loro cammino, ma non lo riconoscono. Non perché Egli ha assunto un volto sconosciuto per apparire in incognito, ma perché «i loro occhi non avevano la forza di riconoscerlo» (Lc 24, 16). Non tocca a Gesù cambiare il volto, bensì ai discepoli cambiare lo sguardo. Quella dei due discepoli è un’incapacità profonda, che investe la mente e il cuore. Occorre un modo nuovo di guardare ciò che già prima si è visto.
Questa capacità di guardare in avanti, di andare oltre per vedere come Cristo si rivela, è ciò che rende gli occhi capaci di riconoscerlo. Sia questo per noi il dono che desideriamo e domandiamo per il Natale: «Signore, mostraci il tuo volto, e noi saremo salvi!» (cf Sal 80, 4).