Festa di S. Chiara della Croce
Montefalco, 17 agosto 2010
«Allontanati da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Mai, in tutto il vangelo, Gesù ha avuto parole così dure; mai ha attribuito ad una persona il nome stesso dello spirito del male. E queste parole, per di più, sono rivolte proprio a Pietro, sul quale Gesù ha annunciato di voler edificare la sua chiesa (cf Mt 16, 18-19). C’è di che rimanere sorpresi e sconcertati…
Ciò che Gesù rimprovera aspramente a Pietro è la sua incapacità di «pensare secondo Dio» perché lui continua a «pensare secondo gli uomini». Capita anche a noi, cari fratelli e sorelle (e più spesso di quanto non ce ne rendiamo conto). Non sarà perché non siamo più capaci o non vogliamo più «pensare secondo Dio» che esperimentiamo ogni giorno – e il nostro mondo insieme con noi – sofferenza e disorientamento, senza sapere quale strada seguire e quale sapienza ricercare? Occorre imparare nuovamente a «pensare secondo Dio». Ma come? Gesù lo indica con le parole che abbiamo ascoltato e che raccontano, quasi in filigrana, l’avventura umana e spirituale di Chiara della Croce.
«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). Il verbo “rinnegare” nella Bibbia indica l’abbandono totale, senza tentennamenti, di tutte le idolatrie, per appartenere soltanto al Signore. E Gesù ci dice che l’idolatria da abbandonare siamo noi stessi, è l’esaltazione di sé a valore ultimo e, quindi, a criterio di ogni scelta. Il discepolo deve risolutamente cambiare il centro della vita: non più se stesso, ma Gesù. Chiara lo ha capito e lo ha messo in pratica: fin da fanciulla raggiunge la sorella Giovanna nel romitorio e poi nel monastero, per dedicarsi con cuore indiviso al Signore che ha incontrato e seguito come sposo e maestro.
Sono indicate, nelle parole di Gesù, le condizioni necessarie per seguirlo, che sono le condizioni per “salvare la vita”: è necessario essere in comunione stretta con lui; una comunione che non si può vivere ‘a distanza’, ma solo seguendo da vicino il maestro e partecipando interamente al suo destino (che è “prendere la croce”). Questa comunione ha una priorità assoluta, deve essere anteposta all’affermazione di sé e al riconoscimento da parte degli altri: «Non bisogna né dire né fare se non ciò che sia gradito a Dio… Nell’amore di Dio bisogna crescere con la sapienza e con la vita», insegnerà Chiara alle sue sorelle (Berengario di Donadio, Vita di Chiara da Montefalco, Roma 2009, p. 147).
Si tratta di riconoscere in Gesù la rivelazione di un valore, una meta, una misura di realizzazione di sé superiore ad ogni altra misura (compresa quella iscritta nella nostra stessa natura), e l’unica in grado di rispondere adeguatamente alle attese dell’uomo. È la regola che sintetizza bene la legge ‘pasquale’ della vita, il ‘rovesciamento’ che il Vangelo chiede al nostro modo di pensare e di vivere: perdere per trovare, offrire per ricevere, abbassarsi per essere innalzati. Perché l’affermazione di sé porta alla negazione; il rinnegamento porta a ritrovarsi. Il rinnegamento non è per un di meno, ma per un di più; non è un fine ma una tappa intermedia per raggiungere la meta che è la vita in pienezza. Si tratta di mettere in gioco la totalità di se stessi (desideri, progetti, identità, riconoscimento, realizzazione, e non semplicemente delle idee); si tratta di una disposizione totale della persona, non di una operazione intellettuale, ma della disponibilità ad assumere come criterio della propria realizzazione e felicità non i propri desideri e valori ma quelli di Gesù, orientati al dono di sé in obbedienza al Padre per amore dei fratelli. In questo dono della vita si misura la consistenza dell’amore: di Gesù per i suoi e dei discepoli per i loro fratelli (cf Gv 15,13). Unicamente in nome dell’amore trova senso e giustificazione il rinnegamento di sé.
Non dobbiamo guardare a noi stessi e poi chiederci: «In che cosa devo dire di no a me stesso?». Dobbiamo invece guardare a Gesù e chiedergli: «Signore, dove sei tu, perché io possa stare con te? Che cosa devo fare per restare in comunione con te? Che cosa in me e attorno a me si oppone a questa comunione e pertanto deve essere rinnegato e lasciato?». Soltanto il desiderio di una vita piena e la fiducia nella promessa di Gesù (che la vita piena – cioè – è nella comunione con lui) possono dare senso e forza al rinnegamento di sé e all’accettazione della croce. «La grazia di Dio può operare nell’anima sopra le possibilità della natura e dell’intelletto – ci dice ancora Chiara -. Dal tempo in cui Dio ordinò in me la buona volontà e la conformò alla sua, ho potuto occuparmi degli altri e di molti impegni, rimanendo in unione con lui» (Berengario…, p. 148).
E così, giorno dopo giorno, Chiara comprende ed insegna che il distacco per seguire Gesù non è una perdita, ma un guadagno (cf Mc 10,28-30), che rende possibile la gioia della comunione con Dio e ci dà, al tempo stesso, un modo diverso di rapportarci al mondo. Chi punta verso Dio e si libera dall’ansia dell’accumulo e della paura di perdere ciò che ha accumulato, vede nel mondo e nelle cose un dono, e vi si accosta con animo libero, aperto alla gioia. Il cammino della sequela richiede fatica, disciplina, allenamento e una consuetudine conquistata giorno dopo giorno. Ma se è autentico, porta a una scoperta che tutto capovolge: non è il discepolo che dona se stesso al Maestro, ma è il Maestro che dona se stesso al discepolo; non è il discepolo che dona a Dio le cose che lascia, ma è Dio che insegna al discepolo un modo nuovo di godere delle cose. «Signore, dove vai? – domanda Chiara – Sono andato cercando in tutto il mondo un luogo forte dove piantare profondamente questa croce, ma non l’ho trovato… Si, Chiara, qui ho trovato il posto per la mia croce. E da quel momento sentì nel suo cuore, sensibilmente e per sempre, la croce. Io ajo Jesu Cristo mio crucifisso entro lu core mio». Tutto questo, però, ad una condizione, che è l’esigenza forse più profonda e coraggiosa della sequela: il coraggio di lasciare che sia Cristo a suggerirci come guardare Dio, l’uomo, il mondo. Ce lo ricorda continuamente Papa Benedetto XVI, quando afferma che «chi fa entrare Cristo nella sua vita non perde nulla, assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande… Non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo» (cf Omelia, 24 aprile 2005).
Chiara lo ha esperimentato e vissuto in profondità. Afferma infatti: «La vita dell’anima è l’amore di Dio. Dall’amore l’anima viene unita a Dio e diventa una cosa sola con lui, e tanta è l’amicizia di Dio all’anima e dell’anima a Dio che ciò che vuole Dio lo vuole anche l’anima, e ciò che vuole una tale anima lo vuole Dio stesso» (Berengario …, p. 152).
La parola del Signore che abbiamo ascoltato e l’esempio di Chiara della Croce ci invitano ad affidarci al Dio di Gesù Cristo, che manifesta la sua potenza nell’Amore che si consegna nell’impotenza, che si fa crocifiggere, che, donandosi, accetta anche di essere povero ed rifiutato. Se questa è la logica di Dio, siamo pronti a farla nostra anche se sembra contrastare col naturale bisogno di affermazione? Il Vangelo chiede anzitutto questa “conversione” di mentalità nel guardare alla vita.
Chiara ci sollecita poi ad una fede professata e vissuta. È indispensabile che la professione della nostra fede scaturisca da un’esperienza personale di intimità con Gesù, dalla scelta rischiosa e responsabile di percorrere il cammino quotidiano come lui lo ha percorso. Accogliere Gesù vuol dire decentrare la propria personalità. La vita non deve essere sentita come un bene da conservare morbosamente per sé, ma come un dono da spendere, ricordando che essa è un bene che neppure la conquista di tutto il mondo può sostituire (cf Mc 8,36).
Infine, si tratterà di non vergognarsi della propria identità cristiana. Ci sono contesti differenti in cui le parole di Gesù possono risuonare con tonalità diversa. C’è la persecuzione, non assente neppure ai nostri giorni in varie nazioni, in cui il richiamo a non vergognarsi di Gesù è un invito al coraggio di affrontare anche l’esclusione dalla vita pubblica, il linciaggio sociale, lo stesso martirio (pensiamo, tra l’altro, al recente assassinio del Vescovo Luigi Padovese, Vicario Apostolico dell’Anatolia). Anche il nostro ambiente secolarizzato, che non è esplicitamente opposto alla fede cristiana ma è sottilmente abile nella sua marginalizzazione, ci invita a prendere seriamente le parole di Gesù. Se “testimoniare” non è “ostentare” trionfalisticamente, nemmeno è corretto relegare la fede nel “privato” della coscienza personale, neutralizzandone la capacità di fermento per la vita del mondo. Ricuperare il senso della dignità del nostro essere cristiani consente quella libertà di presentarci come tali, non semplicemente in quanto gruppo sociale o come opera caritativa, né tanto meno come una lobby di potere, ma piuttosto in quanto capaci di annunciare e testimoniare che, a partire dalla passione, morte e risurrezione di Gesù, davvero la vita spesa per amore è la logica che può salvare il mondo.
In questo “stare” gioiosamente con il Signore, aggrappata alla sua croce e nella sequela di Lui, consiste il “testamento” di Chiara di Montefalco. Mi sembra essere questo anche il messaggio che essa, senza mezze misure, rivolge direttamente a tutti noi che ne celebriamo oggi la gloriosa memoria. Come alle sue sorelle il 17 agosto del 1308, Chiara ci ripete: «Ora non ho più nulla da dirvi. Voi state con Dio, perché io vado a lui». Beati noi se sapremo farne tesoro e metterlo in pratica.