Omelia dell’Arcivescovo Renato Boccardo nella notte di Natale

Omelia dell’Arcivescovo Renato Boccardo nella notte di Natale

Omelia dell’Arcivescovo Renato Boccardo nella notte di Natale

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Omelia dell’Arcivescovo Renato Boccardo nella notte di Natale

Notte di Natale
Spoleto, chiesa cattedrale, 24 dicembre 2009

 


È  stato  scritto  che  tre  cose  sono  indispensabili  all’uomo:  pane, salute  e  speranza.  Non  pane  e  salute  veniamo  a  cercare  questa notte;  siamo  usciti  dalle  nostre  case  e  siamo  qui  forse  perché tutti  e  ciascuno,  in  un  modo  o nell’altro,  a  livello  personale  e comunitario, ci riconosciamo mendicanti di speranza.

Perché  c’è  tanta  paura  oggi  nel  mondo:  paura  per  un  presente inquieto  e  triste,  segnato  qua  e  là  anche  da  sangue  e  violenza, paura  per  un  domani  ancora  più  incerto  ed  oscuro.  La  speranza sembra farsi ogni giorno più debole.

 

In questi giorni siamo stati come sommersi da luci, suoni, colori, che  sembrano  voler  far  capire  ad  ogni  costo  che  c’è  qualcosa  di diverso nell’aria, che è un’altra volta Natale. Ma dietro le luci, i  suoni,  i  colori,  ad  un  occhio  attento  si  rivelano  gli  stessi gesti  di  ogni  giorno,  lo  stesso  trascinarsi  sempre  uguale  del tempo:  sì,  oggi  è  Natale  –  sembra  di  sentir  dire    –  ma  dura ventiquattro  ore  e  poi  passa,  il  sogno  svanisce  ed  è  di  nuovo realtà.

È giusto tutto questo? E poi, in una tale situazione, che cosa ci può  dire  una  scienza  figlia  di  una  cultura  che  ha  decretato inesistente tutto ciò che è invisibile? Perché questa insicurezza, questa infelicità?

Siamo  infelici  perché  non  crediamo  più  che  Cristo  ci  possa salvare, che quel Bambino possa cambiare qualcosa. E quando non si crede  più  in  qualcosa,  lo  si  abbandona  o  lo  si  sostituisce  con qualcosa di diverso, di più concreto, dalle sensazioni immediate: nasce  il  vitello  d’oro.  «Quando  il  popolo  vide  che  Mosé  non tornava, costruì un vitello d’oro e cominciò ad adorarlo» (cf Es 32, 1-6). Così dice la Bibbia e così anche oggi si sta verificando.

Chi,  nelle  nostre  città  e  nei  nostri  paesi,  non  invoca  un salvatore o almeno una salvezza? Però: dove li cerchiamo? Il mondo cerca  affannosamente  un  salvatore,  ma  continua  a  cercarlo  nei posti  sbagliati:  tra  i  potenti,  spesso  tra  i  prepotenti,  tra  gli uomini di scienza, tra quelli della tecnica, tra coloro che sanno accendere  fanatismo…  Ai  vari  “salvatori”  si  continuano  a  dare nomi via via diversi, ma ogni volta (ed è storia anche di oggi) il risultato  non  cambia:  non  facciamo  altro  che  moltiplicare  le delusioni.

E  se  ascoltassimo  gli  angeli  di  Betlemme?  Il  salvatore  da  essi annunciato  ha  un  nome  preciso,  un  solo:  Cristo  Signore!  (cf  Lc  2, 11).  Quello  del  Natale  ci  pare  il  “solito”  rituale  perché  non sappiamo  capire  che  Cristo  ci  riempie  nella  misura  in  cui  noi  lo desideriamo.  Siamo  forse  troppo  sfiduciati;  sfiduciati  nelle istituzioni,  nell’uomo,  nel  fratello,  e  ci  stanchiamo,  ci rifugiamo nell’anonimato: siamo spesso una società senza volto. Ma se  siamo  senza  volto,  Cristo  ce  ne  può  dare  uno:  il  suo.  Per questo viene in mezzo a noi, nella sua casa (cf Gv 1, 1-11).

Il  Natale  sconfigge  la  paura  e  fonda  la  speranza,  perché  non  ci può essere paura se Dio è con noi (cf Rm 8, 31-39). E questa nostra celebrazione  ci  assicura  che  Dio  non  si  dimentica  dell’uomo,  non lo abbandona nella sua impotenza e solitudine, ma viene – continua a venire – nel mondo, facendosi uomo tra gli uomini, per dare un senso  alla  loro  vita,  per  riscattarli  dalla  loro  debolezza,  per dare  una  prospettiva  e  uno  sbocco  di  salvezza  alla  loro  storia, sottraendoli  –  uomini  e  storia  –  all’insignificanza,  alla distruzione, al vuoto della disperazione e del nulla.

Abbiamo  appena  sentito  nel  racconto  dell’evangelista  l’annuncio recato dall’angelo ai pastori: Gesù ha occupato una stalla, una di quelle stalle naturali, senza padrone, perché gli uomini l’avevano rifiutato,  e  lì  è  nato  da  una  vergine,  e  non  c’era  niente…  «È questo  il  segno  del  Redentore  che  è  nato  –  dice  l’angelo  -: troverete  un  bambino  avvolto  in  fasce,  che  giace  in  una mangiatoria»  (cf  Lc  2,12).  Tutto  qui.  Non  ci  sono  grandezze  che  si possono misurare dal di fuori.

Se qualcuno questa notte domandasse dov’è il “segno” che Cristo è con noi, la risposta non potrebbe essere diversa dall’indicazione offerta  dall’angelo  ai  pastori:  un  bambino,  avvolto  in  pochi panni,  posto  in  una  greppia…  Il  Figlio  di  Dio  è  apparso  sulla terra  ed  ha  scelto,  non  a  caso,  una  grotta.  Si  è  inserito  nella nostra storia e fra le molte situazioni possibili ha scelto, non a caso,  quella  dello  sconfitto:  un  povero,  un  profugo,  un perseguitato.  E  così  la  fede  cristiana  è  costretta  a  scorgere  la potenza di Dio prima in un bambino piccolo e indifeso e poi nella vicenda di un uomo crocifisso.  

Venuto  tra  noi  in  forma  di  uomo,  Cristo  vuole  che  si  continui  a cercarlo  fra  gli  uomini:  è  il  povero  che  ha  fame  e  sete, l’ammalato  che  attende  una  visita,  il  perseguitato  che  attende solidarietà,  il  profugo,  l’emigrato  e  l’extracomunitario  che attende rispetto e accoglienza, l’amico che desidera essere amato, ascoltato, sorretto. La sua presenza misteriosa si realizza nella “frazione del pane”, un gesto compiuto da uomini e  – non certo a caso  –  un  gesto  nel  contempo  di  fraternità  (il  pane  e  il  vino condivisi)  e  di  sacrificio  (il  pane  spezzato,  il  vino  versato); perché quando due o tre si radunano nel suo nome, egli è in mezzo a loro (cf Mt 14, 18).

Cristo c’è perché c’è un bambino deposto in una mangiatoia; perché è avvolto in pochi panni; perché gli han chiuso le porte in faccia ed è andato nascere dove si ricoverano gli animali. E quella casa non  ha  padrone,  perché  il  Signore  che  viene  al  mondo  non  ha padroni:  né  re,  né  imperatori,  e  neanche  quelli  che  consideriamo potenti  e  ci  abbagliano  con  ricchezze  e  parole  sono  i  padroni: sono  invece  i  servitori  di  questo  bambino,  il  quale  non  cerca  né l’omaggio  degli  uomini,  né  il  loro  servizio,  né  la  loro adorazione.

Ci sono delle cose che non si possono comandare. L’adorazione e il servizio  degli  uomini  si  possono  anche  comandare:  e  gli  uomini sanno tremendamente comandare, gli uomini, gli idoli, i miti sanno imporre;  le  piccole  potenze  umane  hanno  bisogno  di  costringere  i popoli  a  certi  riconoscimenti.  Cristo  no.  Ha  lasciato  che rimanessero  chiuse  le  porte  di  Betlemme.  Non  ha  chiesto  un riconoscimento,  non  si  è  lamentato.  È  nato  come  l’ultimo  degli uomini, senza casa, senza niente.

E  cosa  importa,  miei  cari  fratelli  e  sorelle,  il  riconoscimento che non nasce dal cuore, che non è un omaggio che viene da qualche cosa di nostro e che nessuno ci comanda? Perché tutto è comandato quaggiù, tutto è imposto: c’è una cosa sola che non è imposta, ed è  l’amore;  c’è  una  cosa  sola  che  deve  nascere  nel  nostro  cuore senza  che  nessuno  la  manovri,  perché  altrimenti  perde  il  suo valore, ed è l’amore. Di questo amore Cristo Gesù si fa mendicante questa notte, rendendosi ancora una volta presente in mezzo a noi e bussando alla porta del nostro cuore.

Saremo  capaci  di  rispondere,  uscendo  dalla  prigionia  dorata  del nostro egoismo, per offrirgli il dono del nostro amore? Come hanno fatto  i  pastori,  che  appena  ricevuto  l’annuncio  si  sono  subito messi in cammino…

Allora  la  paura  abbandonerà  i  nostri  cuori,  la  speranza  potrà rinascere ed avremo la pace e, con la pace, la gioia. Allora sarà veramente  Natale.  È  l’augurio  e  la  preghiera  che  il  Vescovo formula per voi e per tutta la comunità diocesana, deponendoli con fiducia ai piedi del Bambino di Betlemme.

Oggi è nato per noi il Salvatore. Venite, adoriamo!

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