Notte di Natale
Spoleto, chiesa cattedrale, 24 dicembre 2009
È stato scritto che tre cose sono indispensabili all’uomo: pane, salute e speranza. Non pane e salute veniamo a cercare questa notte; siamo usciti dalle nostre case e siamo qui forse perché tutti e ciascuno, in un modo o nell’altro, a livello personale e comunitario, ci riconosciamo mendicanti di speranza.
Perché c’è tanta paura oggi nel mondo: paura per un presente inquieto e triste, segnato qua e là anche da sangue e violenza, paura per un domani ancora più incerto ed oscuro. La speranza sembra farsi ogni giorno più debole.
In questi giorni siamo stati come sommersi da luci, suoni, colori, che sembrano voler far capire ad ogni costo che c’è qualcosa di diverso nell’aria, che è un’altra volta Natale. Ma dietro le luci, i suoni, i colori, ad un occhio attento si rivelano gli stessi gesti di ogni giorno, lo stesso trascinarsi sempre uguale del tempo: sì, oggi è Natale – sembra di sentir dire – ma dura ventiquattro ore e poi passa, il sogno svanisce ed è di nuovo realtà.
È giusto tutto questo? E poi, in una tale situazione, che cosa ci può dire una scienza figlia di una cultura che ha decretato inesistente tutto ciò che è invisibile? Perché questa insicurezza, questa infelicità?
Siamo infelici perché non crediamo più che Cristo ci possa salvare, che quel Bambino possa cambiare qualcosa. E quando non si crede più in qualcosa, lo si abbandona o lo si sostituisce con qualcosa di diverso, di più concreto, dalle sensazioni immediate: nasce il vitello d’oro. «Quando il popolo vide che Mosé non tornava, costruì un vitello d’oro e cominciò ad adorarlo» (cf Es 32, 1-6). Così dice la Bibbia e così anche oggi si sta verificando.
Chi, nelle nostre città e nei nostri paesi, non invoca un salvatore o almeno una salvezza? Però: dove li cerchiamo? Il mondo cerca affannosamente un salvatore, ma continua a cercarlo nei posti sbagliati: tra i potenti, spesso tra i prepotenti, tra gli uomini di scienza, tra quelli della tecnica, tra coloro che sanno accendere fanatismo… Ai vari “salvatori” si continuano a dare nomi via via diversi, ma ogni volta (ed è storia anche di oggi) il risultato non cambia: non facciamo altro che moltiplicare le delusioni.
E se ascoltassimo gli angeli di Betlemme? Il salvatore da essi annunciato ha un nome preciso, un solo: Cristo Signore! (cf Lc 2, 11). Quello del Natale ci pare il “solito” rituale perché non sappiamo capire che Cristo ci riempie nella misura in cui noi lo desideriamo. Siamo forse troppo sfiduciati; sfiduciati nelle istituzioni, nell’uomo, nel fratello, e ci stanchiamo, ci rifugiamo nell’anonimato: siamo spesso una società senza volto. Ma se siamo senza volto, Cristo ce ne può dare uno: il suo. Per questo viene in mezzo a noi, nella sua casa (cf Gv 1, 1-11).
Il Natale sconfigge la paura e fonda la speranza, perché non ci può essere paura se Dio è con noi (cf Rm 8, 31-39). E questa nostra celebrazione ci assicura che Dio non si dimentica dell’uomo, non lo abbandona nella sua impotenza e solitudine, ma viene – continua a venire – nel mondo, facendosi uomo tra gli uomini, per dare un senso alla loro vita, per riscattarli dalla loro debolezza, per dare una prospettiva e uno sbocco di salvezza alla loro storia, sottraendoli – uomini e storia – all’insignificanza, alla distruzione, al vuoto della disperazione e del nulla.
Abbiamo appena sentito nel racconto dell’evangelista l’annuncio recato dall’angelo ai pastori: Gesù ha occupato una stalla, una di quelle stalle naturali, senza padrone, perché gli uomini l’avevano rifiutato, e lì è nato da una vergine, e non c’era niente… «È questo il segno del Redentore che è nato – dice l’angelo -: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoria» (cf Lc 2,12). Tutto qui. Non ci sono grandezze che si possono misurare dal di fuori.
Se qualcuno questa notte domandasse dov’è il “segno” che Cristo è con noi, la risposta non potrebbe essere diversa dall’indicazione offerta dall’angelo ai pastori: un bambino, avvolto in pochi panni, posto in una greppia… Il Figlio di Dio è apparso sulla terra ed ha scelto, non a caso, una grotta. Si è inserito nella nostra storia e fra le molte situazioni possibili ha scelto, non a caso, quella dello sconfitto: un povero, un profugo, un perseguitato. E così la fede cristiana è costretta a scorgere la potenza di Dio prima in un bambino piccolo e indifeso e poi nella vicenda di un uomo crocifisso.
Venuto tra noi in forma di uomo, Cristo vuole che si continui a cercarlo fra gli uomini: è il povero che ha fame e sete, l’ammalato che attende una visita, il perseguitato che attende solidarietà, il profugo, l’emigrato e l’extracomunitario che attende rispetto e accoglienza, l’amico che desidera essere amato, ascoltato, sorretto. La sua presenza misteriosa si realizza nella “frazione del pane”, un gesto compiuto da uomini e – non certo a caso – un gesto nel contempo di fraternità (il pane e il vino condivisi) e di sacrificio (il pane spezzato, il vino versato); perché quando due o tre si radunano nel suo nome, egli è in mezzo a loro (cf Mt 14, 18).
Cristo c’è perché c’è un bambino deposto in una mangiatoia; perché è avvolto in pochi panni; perché gli han chiuso le porte in faccia ed è andato nascere dove si ricoverano gli animali. E quella casa non ha padrone, perché il Signore che viene al mondo non ha padroni: né re, né imperatori, e neanche quelli che consideriamo potenti e ci abbagliano con ricchezze e parole sono i padroni: sono invece i servitori di questo bambino, il quale non cerca né l’omaggio degli uomini, né il loro servizio, né la loro adorazione.
Ci sono delle cose che non si possono comandare. L’adorazione e il servizio degli uomini si possono anche comandare: e gli uomini sanno tremendamente comandare, gli uomini, gli idoli, i miti sanno imporre; le piccole potenze umane hanno bisogno di costringere i popoli a certi riconoscimenti. Cristo no. Ha lasciato che rimanessero chiuse le porte di Betlemme. Non ha chiesto un riconoscimento, non si è lamentato. È nato come l’ultimo degli uomini, senza casa, senza niente.
E cosa importa, miei cari fratelli e sorelle, il riconoscimento che non nasce dal cuore, che non è un omaggio che viene da qualche cosa di nostro e che nessuno ci comanda? Perché tutto è comandato quaggiù, tutto è imposto: c’è una cosa sola che non è imposta, ed è l’amore; c’è una cosa sola che deve nascere nel nostro cuore senza che nessuno la manovri, perché altrimenti perde il suo valore, ed è l’amore. Di questo amore Cristo Gesù si fa mendicante questa notte, rendendosi ancora una volta presente in mezzo a noi e bussando alla porta del nostro cuore.
Saremo capaci di rispondere, uscendo dalla prigionia dorata del nostro egoismo, per offrirgli il dono del nostro amore? Come hanno fatto i pastori, che appena ricevuto l’annuncio si sono subito messi in cammino…
Allora la paura abbandonerà i nostri cuori, la speranza potrà rinascere ed avremo la pace e, con la pace, la gioia. Allora sarà veramente Natale. È l’augurio e la preghiera che il Vescovo formula per voi e per tutta la comunità diocesana, deponendoli con fiducia ai piedi del Bambino di Betlemme.
Oggi è nato per noi il Salvatore. Venite, adoriamo!