Giorno di Natale.
Spoleto Chiesa Cattedrale, 25 dicembre 2009.
Questa notte abbiamo sentito proclamare dal profeta Isaia che «il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9, 1). E l’autore della lettera agli Ebrei ci ha appena detto che «Dio, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1, 1-2).
Se la festa del Natale porta con sé un sentimento di nostalgia e tanta tenerezza, tanti sentimenti che ci commuovono, è perché ci riporta davanti agli occhi l’immagine dell’infanzia più fragile. In essa, noi vediamo insieme la bellezza e l’innocenza, la debolezza dell’esistenza, la protezione che essa esige e l’amore che da tutti reclama.
In verità, noi ci identifichiamo con questa infanzia ed è su noi stessi che ci inteneriamo allorché ci viene presentata una tale immagine. Come se, segretamente, ci fosse restituita la sicurezza del bambino circondato dall’amore del padre e della madre; come se potessimo regalarci per un istante l’illusione di essere di nuovo dei bimbi avvolti dall’amore degli inizi.
E se troviamo non di rado che il mondo è duro, è perché troppo forte è il contrasto fra una tale nostalgia e la realtà. Vorremmo davvero che il mondo fosse come l’amore di una madre per il suo bambino; vorremmo davvero essere certi che Dio, come dice la Scrittura, ci circonda con le sue braccia come un lattante in braccio ai genitori (cf Is 49, 15-16).
E ci meravigliamo che il mondo non sia così. E se ci commuoviamo nel giorno di Natale, è per aver sognato, lo spazio di una notte o di un’ora, che potrebbe essere così. Mentre in realtà il mondo rimane duro, impietoso, e noi non siamo più dei lattanti. Anche i lattanti, infatti, cessano un giorno di esserlo, perché nella vita bisogna crescere… Crescere, diventare grandi, vuol dire accettare la propria solitudine, accettare che il mondo non sia fatto così bene come vorremmo e che i nostri sogni non siano la realtà di ogni giorno. E malgrado ciò, vivere, vivere bene, vivere sapendo perché si vive.
Ma è davvero un sogno infantile quello che ci viene proposto con l’immagine di un Bambino donato agli uomini? È di una sicurezza illusoria che l’apostolo Giovanni ci parla nel brano di Vangelo che è stato proclamato?
Dire che in quel bambino noi riconosciamo la Parola di Dio che viene ad abitare in mezzo a noi è riconoscere in lui un istante di sogno e di fragilità, o è piuttosto essere investiti e messi direttamente di fronte a Dio, che nessuno ha mai veduto? Dio, di cui dobbiamo accettare che sia da noi inconoscibile, di cui non possiamo dire nulla che sia degno di quello che egli è. Perché Dio non è il risultato di una convinzione, sia pur intima e forte. Dio non lo si può verificare tutte le mattine come si guarda l’orologio o come si sintonizza la radio; non lo si può vedere come si vede un pezzo di legno scolpito in una chiesa o la foto di una persona cara. Dio, noi non sappiamo chi è.
Perché Dio è più grande di noi e di tutto ciò che noi possiamo concepire, e non possiamo parlare della sua esistenza come di quella di un essere di questo mondo. Dio è come una voragine al di là di noi stessi. E chi vuol scrutare onestamente il suo mistero sfiora a volte degli abissi dove l’incredulità e la fede, il dubbio più profondo e la fede più disarmata si fiancheggiano e oscillano tra l’uno e l’altra.
E questa prova, questo trovarsi dinanzi ad un abisso dove l’immensità di Dio appare come affascinante ed inconcepibile, non è l’ateismo o l’idolatria di chi rifiuta, di chi si rinchiude, di
chi considera dio la propria forza. L’uomo che davanti al mistero di Dio si spaventa e resta confuso è quello che incomincia a credere veramente; l’uomo che davanti al mistero di Dio, immenso, non sa come pensare, indietreggia, trema, forse, e non osa guardare coi propri occhi, concepire nel proprio cuore come il Dio Altissimo possa interessarsi a lui e amarlo, quest’uomo fa i primi passi del credente che lo Spirito di Dio attira e sospinge.
Ora, colui che è più grande di noi, più grande dei nostri dubbi e delle nostre speranze, più grande delle nostre grida e delle nostre bestemmie, più grande di qualsiasi idea che noi ce ne possiamo fare, colui al quale noi potremmo rimproverare il fatto di esistere, dato che le nostre esistenze, dopotutto, non ci appaiono sempre come un dono o come un bel dono, colui al quale noi potremmo dire: «Tu sei lontano e ci lasci soli; non t’importa dell’uomo che hai creato?», ebbene questi, cioè Dio, si consegna a noi prendendo su di sé la nostra fragilità. San Paolo scrive: «Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2, 5-7). Dio si consegna a noi e diventa uno di noi: dono e mistero incomprensibile, che il Natale sempre ci ripropone.
Dire che Dio diviene accessibile nella vita reale di un bambinello è come dire che Dio si fa ancora più invisibile, più incredibile, più inconcepibile. Poiché sapete bene, voi che avete tenuto un bimbo nelle vostre braccia, che quel bimbo è ancora quasi un nulla. Dire che quell’infante – e Gesù bambino noi non possiamo concepirlo che come ogni altro bambino di questo mondo – è Dio stesso che si consegna a noi in quella figura umana, in quella esistenza così fragile, è quasi ancor meno credibile, ancor meno visibile di ogni altra idea di Dio.
È nel momento stesso in cui Dio si dà a noi che ci sembra ancor più incomprensibile che ci sia fatto un tale dono. È quando l’amore ci raggiunge che diviene inconcepibile; è quando l’amore si fa prossimo che saremmo tentati di indietreggiare dicendo: «Non è vero».
Questo vuol dire che non possiamo accostarci al mistero del Natale che disorienta la nostra mente, che sconvolge la nostra esistenza, se non a condizione di essere noi stessi trasformati. Se Dio si
consegna così nelle nostre mani, come un bimbo inerme nelle braccia dei genitori – e questa affermazione non è blasfema -, vuol dire non soltanto che Dio sta di fronte a noi, ma che Colui che è al di sopra di noi si consegna a noi nella figura del fratello. Noi non scopriamo che qualcuno ci ama se non quando acconsentiamo ad amarlo. Perciò non possiamo riconoscere il mistero di Dio nascosto in quel bambino se non accettando di donarci a lui.
Siamo davanti alla questione più fondamentale della nostra vita, davanti al segreto più difficile e più semplice, alla gioia più grande e più profonda, ma che resta fragile, nascosta al centro della nostra esistenza e che, senza sosta, ci chiama a nascere e ad aprirci all’infinito di Dio.
Quello che stiamo celebrando non è, dunque, l’istante di sogno in cui ridiventiamo come infanti ma, al contrario, è l’istante più profondo e più reale di ogni vita. Come il Bambino nato da Maria, così anche noi dobbiamo nascere dall’alto, essere messi incessantemente al mondo dall’amore di Dio, riceverci da lui e ricevere lui; essere come generati, accolti e nati dalla potenza che viene dall’alto.
Ascoltiamo ancora una volta: «Il Verbo era la luce vera, quella che illumina ogni uomo… Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi… A quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio» (cf Gv 1, 9-14).
Oggi è nato per noi il Salvatore. Venite, adoriamo!