«Voi siete il sale della terra. Voi siete la luce del mondo», dice Gesù ai suoi discepoli, quelli di ieri e quelli di oggi. Non offre una serie di precetti, un catalogo preciso delle cose da fare, ma svela la loro identità. E li invita ad essere, cioè a trasformare tutta l’esistenza in segno fecondo e luminoso della presenza di Dio. L’immagine del sale e della luce non ha un valore estetico ma ministeriale: il sale non è bello ma buono; la luce non suscita ammirazione ma riscalda e dona la possibilità di vedere. Essere sale significa dare sapore, gusto e senso alla vita, fecondare la storia con la testimonianza del Vangelo. Essere luce vuol dire comunicare la verità che allontana le tenebre del dubbio e della paura. Chi si dice discepolo di Gesù non può sottrarsi a questo compito, pena il divenire insignificante, perdere sapore (come sale divenuto insipido) e forza irraggiante (come luce che non illumina più), cioè tradire se stesso e la propria vocazione.
Perché se smettiamo di essere “sale e luce” non serviamo a nulla se non ad essere buttati via; diventiamo spazzatura. E il mondo è già pieno di discariche così. Attenzione però: perdere sapore non significa necessariamente abbandonare la fede; è sufficiente non impegnarsi a fondo, non confermare con la vita la parola che si annuncia con le labbra. Ed è altrettanto facile, oltre che comodo, tenere nascosta la fede, riducendola a fatto privato. In fondo, si tratta di quelle scelte dettate dalla meschinità che inquinano l’esistenza e il cuore. Questo stile di vita, purtroppo molto diffuso, è una trappola mortale perché il cristianesimo per sua natura è fuoco, totalità, radicalità. Non arrendiamoci dunque alle realtà sciapite e insapori che molte volte la vita ci presenta come valide e gustose; non cediamo alla notte dei valori che ci viene imposta come unica strada verso la luce del progresso; non permettiamo che la mediocrità – in tutte le sue forme – diventi componente normale dell’esistenza!
L’insegnamento evangelico ricorda poi che essere e servire sono intimamente intrecciati. Essere cristiani è certamente una grazia, ma deve essere vissuto come una responsabilità. Chi riconosce che Gesù è il Signore della storia percepisce anche la necessità di annunciare e testimoniare che solo Lui può dare fecondità ai nostri giorni. Per questo ci è stato detto: «(Gli uomini) vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli». L’unica opera da compiere è raccontare Gesù, che a sua volta è il racconto della tenerezza del Padre. È dare visibilità all’amore. Le cose che contano non devono essere ostentate, è vero, ma nemmeno si possono tenere nascoste. Non si può vivere in vetrina, ma non si può neppure credere che il bene debba essere trasparente, invisibile. La differenza è molto semplice: il bene non buono è seduttivo, conduce a se stesso; il bene buono invece è indicativo, segnala sempre Qualcun altro, cioè Dio. Senza dimenticare che ciò che il cristiano è parla molto più forte di quello che dice; che la Chiesa diffonde nel mondo, semplicemente, quello che essa è e vive al proprio interno.
Come sarebbe bello se, superando meschinità e intolleranze, invidie e gelosie, chiacchiere inutili e cattive, imparassimo finalmente a valorizzare quello che ci unisce piuttosto che sottolineare continuamente quello che ci divide, guardando insieme verso la stessa meta, edificando quella unità nella diversità capace di riconoscere e valorizzare i doni e i carismi di ciascuno, per formare quell’unico corpo fatto di molte membra di cui ci ha parlato San Paolo nella seconda lettura. Allora popoli e nazioni direbbero: «Vogliamo venire con voi, perché abbiamo compreso che Dio è con voi», come riferiva il profeta Zaccaria. È sempre vero, purtroppo, che ogni attentato alla comunione e all’unità della Chiesa, perpetrato con il nostro atteggiamento e le nostre parole, è peccato grave e ferisce profondamente il corpo di Cristo…
Da più di un anno a questa parte, il tempo nuovo che stiamo attraversando ci obbliga a guardare avanti e, insieme, ci proibisce di ritornare al passato. Fedele alla tradizione non è chi ripete quanto si è sempre fatto, ma solo chi tende l’orecchio e il cuore a quello che lo Spirito Santo vuole dire alla comunità (cf Ap 2, 7): «Non ricordate più le cose passate», diceva il profeta agli Israeliti di ritorno dall’esilio, «non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 49, 19). Per questo Papa Francesco – ben prima della pandemia – ha chiesto a tutta la Chiesa «una conversione pastorale e missionaria che non può lasciare le cose come stanno» (EG 25). Perché – ha detto ancora senza mezzi termini – «è finito il tempo della cristianità» (alla Curia Romana, 21 dicembre 2019). Infatti, ciò che ha svuotato le nostre assemblee liturgiche non è stata la pandemia e neppure la perdita di importanza della fede e della religione agli occhi di tanti; sono fatti che la pandemia ha solo evidenziato o, al massimo, accelerato. Le chiese si stavano svuotando già prima: tanta gente non pratica più, perché ritiene inutile la religione e dichiara di vivere bene anche senza Dio. Per queste ragioni la pastorale dopo la pandemia dovrà caratterizzarsi – dovrebbe esserlo stata anche prima – per la sua natura missionaria, capace cioè di offrire nuovamente a tutti l’ABC del Vangelo con un approccio fatto di simpatia e di empatia, caratterizzato dall’ospitalità e dalla gratuità.
Di fronte a queste sfide, accogliendo l’invito del Papa e in sintonia con il percorso di preparazione alla XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione», le Chiese che sono in Italia hanno deciso di intraprendere un Cammino sinodale dal titolo “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita”, scandito in tre tempi: ascolto, ricerca e proposte, che richiamano le tre grandi dimensioni bibliche: narrativa, sapienziale e profetica. Anche noi dunque dia mo inizio questa sera ad un percorso sinodale, la cui prima tappa sarà un “esercizio di ascolto” per raccogliere i germi di verità e bontà seminati nei cuori di tutti. Con profezia e parresia, sforzandoci di edificare ponti (e non muri) nella Babele che abitiamo, vogliamo intercettare nuove domande, riflettere su che cosa significhi essere Chiesa oggi, esaminare i suoi modi di relazionarsi con la vasta porzione di società che non solo ha smarrito il senso di Dio ma non sente per nulla il bisogno di un’appartenenza ecclesiale. Ma, soprattutto, dobbiamo e vogliamo porci tutti – vescovo, sacerdoti, persone consacrate, sorelle e fratelli laici, parrocchie, pievanie e comunità – in un serio atteggiamento di ascolto della parola di Dio e delle domande, affanni e speranze degli uomini e donne del nostro tempo. Daremo pertanto particolare importanza alla costituzione e al consolidamento dei Consigli pastorali di Pievania – che sono per loro stessa natura luogo di sinodalità e corresponsabilità, scuola di ascolto e discernimento – e realizzeremo alcuni forum nei quali si possano esprimere tutti i battezzati e anche coloro che non vivono un’appartenenza cordiale alla Chiesa o non sperimentano la consolazione della fede: lo Spirito, infatti, parla un linguaggio di comunione proprio attraverso la dialettica della diversità.
All’interno di questo progetto si colloca in modo significativo la Visita pastorale che vede oggi il suo inizio solenne con un tempo specifico di preparazione: a partire dalla festa di San Ponziano 2022, poi, intendo riprendere il bastone del pellegrino per andare nuovamente incontro a tutte le comunità, con il proposito di seguire i passi di Gesù, «pastore e custode delle nostre anime» (1 Pt 2, 25). Il rapido mutare dei tempi e della cultura, la necessità di un rinnovato annuncio del Vangelo, la diminuzione progressiva del clero, l’urgenza di una maggiore assunzione di responsabilità da parte dei fedeli laici, la crisi della famiglia, la pandemia e tanti altri fattori socio-culturali che hanno investito il territorio, esigono che questo evento costituisca un forte incoraggiamento a proseguire e a qualificare il cammino lasciando da parte ogni tentazione “dimissionaria” per ritrovare uno spirito missionario ( cf EG nn. 119-121), con ferma fiducia nello Spirito di Dio più che nelle nostre risorse. Vi chiedo di unirvi a me in preghiera affinché la Visita sia messaggio di consolazione e speranza, cemento di unità e fermento di carità.
Infine: nel 2023 ricorreranno 825 anni dalla dedicazione di questa nostra Cattedrale, avvenuta nel 1198 per mano di Papa Innocenzo III. Celebreremo la ricorrenza con un intero “anno giubilare” dall’ottobre 2022 all’ottobre 2023, segnato da diverse iniziative a livello pastorale, culturale e artistico. Alla luce di questo anniversario, ho raccolto alcune riflessioni circa il segno della Cattedrale, il mistero della Chiesa, la stagione che stiamo vivendo e la necessità di “ripartire” con fiducia e speranza, nella Lettera pastorale “Chiesa di Cristo. Chiesa per il mondo”, che riceverete uscendo, al termine della liturgia. In essa sono delineate anche alcune particolari iniziative che ci permetteranno di iniziare a dare corpo all’ascolto proposto per questo primo anno di Cammino sinodale.
Tutto vogliamo accompagnare con il nostro impegno e con la preghiera personale e comunitaria, facendo nostra l’invocazione che Papa Francesco ha pronunciato qualche giorno fa nell’Aula Nuova del Sinodo dei Vescovi: «Vieni, Spirito Santo. Tu che susciti lingue nuove e metti sulle labbra parole di vita, preservaci dal diventare una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire. Vieni tra noi, perché nell’esperienza sinodale non ci lasciamo sopraffare dal disincanto, non annacquiamo la profezia, non finiamo per ridurre tutto a discussioni sterili. Vieni, Spirito Santo d’amore, apri i nostri cuori all’ascolto. Vieni, Spirito di santità, rinnova il santo Popolo fedele di Dio. Vieni, Spirito creatore, fai nuova la faccia della terra. Amen.».