Omelia nella Notte di Natale, Duomo di Spoleto, 24 dicembre 2021

Omelia nella Notte di Natale, Duomo di Spoleto, 24 dicembre 2021

Omelia nella Notte di Natale, Duomo di Spoleto, 24 dicembre 2021

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Omelia nella Notte di Natale, Duomo di Spoleto, 24 dicembre 2021

L’evento che celebriamo questa notte non è una “apparizione” di Dio tra gli umani, ma la nascita di un bambino che soltanto Dio poteva dare all’umanità, un «nato da donna» (Gal 4, 4) che veniva da Dio e di lui era racconto e spiegazione (cf Gv 1,18). L’evangelista Luca dipinge l’immagine da fissare senza distrazioni: «un bambino avvolto in fasce adagiato in una mangiatoia» (Lc 2, 7. 12. 16). Certo, ci sono anche la luce che avvolge i pastori, la gloria divina che incute timore, il coro degli angeli che canta la pace per l’umanità amata da Dio; ma questa è solo la cornice che pone in risalto il quadro e cerca di svelarne il senso. Il “segno” che i pastori ricevono dall’annuncio degli angeli è di una semplicità estrema: un bambino nato nella povertà di una stalla, figlio di una povera coppia di sposi cui è negata l’ospitalità. Il segno del Natale è tutto qui. Eppure questo bambino è proclamato Messia, Salvatore e Signore!

L’inizio di una vita di uomo sulla terra: è proprio per questa sua estrema semplicità che il messaggio di questa notte è così universale. È alla portata di tutti, a cominciare dai poveri pastori di Betlemme; eppure è annuncio di un mistero grande, che tuttavia si manifesta nella vita ordinaria di quel figlio d’uomo. Come ogni bambino che nasce, Gesù vivrà solo se qualcuno si prenderà cura di lui, vivrà solo perché amato. Dio viene ed è subito, con tutto sé stesso, mendicante d’amore: si mette nelle tue mani, vivrà se tu lo ami. Tu puoi essere la culla o la tomba di Dio. Perché al di là del racconto traspare l’immagine di un Dio che accetta i nostri stessi limiti: nello spazio e nel tempo, fino alla morte. Un Dio che, per liberarci dalla nostra mortale illusione di essere invulnerabili e onnipotenti, si rende per primo vulnerabile e mortale. E mette la sua vita al servizio dell’intera umanità, rivelando agli uomini la possibilità di un modo nuovo di esistere, rivoluzionario perché pienamente umano, fatto di accoglienza, fraternità e solidarietà. «Nessuno si salva da solo. Siamo tutti sulla stessa barca», ci ha ricordato insistentemente Papa Francesco in questi mesi. L’umanità vive o muore assieme, compresi i più deboli che molti vorrebbero escludere, i profughi e i migranti che vorrebbero tenere lontani dai confini europei, gli anziani considerati inutili e che si spengono lentamente nelle case di riposo isolati da ogni rapporto umano, i bambini non nati o i malati terminali che vorrebbero eliminare in nome di una falsa pietà.

Gesù passerà facendo il bene (cf At 10, 38), compirà il miracolo della ritrovata comunione con Dio e con gli altri servendosi di segni legati ai bisogni essenziali dell’umanità: il pane e il vino condivisi, la salute ridata, la fraternità ristabilita, la vita riaffermata come più forte della morte, la natura nuovamente riconciliata con gli uomini. Per questo nella notte di Natale ci viene detto che la nascita di Cristo è finalizzata ad insegnarci a «vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà», come ha scritto San Paolo al suo discepolo Tito (cf Tt 2, 11-12).

Ma se questo è il fondamento della festa, la gioia che la abita è gioia “per tutto il popolo”, per l’intera umanità destinataria dell’amore di Dio. Se in Gesù il Creatore si è fatto creatura, l’Eterno mortale, l’Onnipotente impotente, è perché l’uomo potesse diventare figlio di Dio. «Dio si è fatto come noi per farci come lui», cantiamo in questi giorni: è il “mirabile scambio” con cui i padri dei primi secoli spiegavano ai loro contemporanei l’evento che aveva non tanto cambiato il corso della storia, quanto ridato alla storia il suo contenuto e la sua direzione.

Ecco il radioso annuncio che proclamiamo agli uomini e alle donne tra i quali viviamo, così assetati di senso, così desiderosi di speranza, così abitati da un’attesa più grande del loro stesso cuore. Per i cristiani si tratta di stare in mezzo agli altri con la stessa gioia con cui Dio è venuto in mezzo a noi nel Figlio, l’Emmanuele, il Dio-con-noi, che non può e non deve mai diventare Dio-contro-gli-altri. Allora il Natale non finirà bruciato nel consumarsi di poche ore e di molti beni, ma si dilaterà moltiplicandosi nel vissuto quotidiano: sarà il pegno di una vita più umana, abitata da relazioni autentiche, capace di esprimere in gesti e parole la bellezza e la luce, come eco di quella luce che brillò nella notte di Betlemme e che deve brillare ancora oggi in ogni luogo avvolto dalle tenebre della pandemia, del dolore e della paura.

«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9, 1). «Venite, camminiamo nella luce del Signore» (Is 2, 5). E sarà un buon Natale. Per noi e per tutti.

 

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