Omelia Assemblea diocesana
Cattedrale di Spoleto, 20 ottobre 2013
Con le pagine bibliche che abbiano ascoltato, la Scrittura ci offre un importante insegnamento sulla preghiera. Il tempo dell’attesa dell’ultima venuta di Cristo è il tempo della fede e anche il tempo della preghiera. C’è una sorta di circolarità tra fede e preghiera. Il rivolgersi a Dio è un esplicito atto di fede in lui, come sempre presente eppure sempre distinto da ogni altra realtà. La preghiera cristiana prima che parola implorante è silenzio profondo per ascoltare e accogliere in sé la parola di Dio. Le persone entrano in comunione ascoltandosi. Noi entriamo in comunione con Dio e ci disponiamo a fare la sua volontà ascoltandolo. Come la fede, anche la preghiera nasce dall’ascolto: è una risposta vitale, ma anche verbale. E questa assumerà varie forme: un’azione di grazie per quello che Dio ha compiuto, una contemplazione piena di ammirazione, una professione di fede, una dichiarazione di impegno, una domanda, una supplica accorata nel tempo della sofferenza e della prova, …
«Occorre pregare sempre, senza stancarsi», dice Gesù. Ma qual è il significato della preghiera? È riconoscere il limite della condizione umana, è constatare che la liberazione totale e la piena realizzazione di sé non dipendono unicamente dall’uomo. Perché l’uomo non può salvare se stesso.
La preghiera è il segno della fiducia in Dio. Quando siamo certi che una persona ci vuole veramente bene, con spontaneità e facilità le chiediamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che è buono. Il credente ha una fiducia così grande in Dio, che a lui domanda con semplicità e a lui si rimette.
La preghiera non è una formula magica che risolve i problemi; essa è aderire e accettare la libertà e la pazienza di Dio. Il credente che prega non intende «piegare» Dio a fare la propria volontà, utilizzarlo per compiere i propri desideri, ma chiede il dono di saper conformare la propria volontà alla sua. Perché solo Dio sa ciò che è veramente nostro bene.
La preghiera, quando è autentica, è sorgente di impegno per cominciare a fare quello che chiediamo. Pregare per la pace, ad esempio, spinge a cominciare a impegnarsi per la pace; pregare perché cessino le sofferenze, spinge ad aiutare chi soffre… Per questo la preghiera non deresponsabilizza mai l’uomo, anzi lo responsabilizza maggiormente. A questo patto si prega davvero «dentro gli avvenimenti». E dentro il giudizio e la promessa di Dio.
L’immagine di Mosè che sul monte tiene le mani alzate mentre nella valle Giosuè
combatte contro Amalek è interpretata come esempio dell’efficacia della preghiera. Senza questa veglia orante, invano ci si affida all’impegno e alla forza umana. È ciò che esprime suggestivamente il Salmo 127: «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella». E il migliore commento al brano della vittoria su Amalek sono le parole del salmo responsoriale: «Il mio aiuto viene dal Signore / che ha fatto cielo e terra». Egli è il custode di Israele che veglia nella notte, lo protegge di giorno con la sua ombra e sta alla sua destra nella battaglia.
L’efficacia e la costanza della preghiera nell’ora dell’attesa costituiscono anche il tema che sorregge il racconto del giudice e della vedova, due personaggi ritratti da Luca con molta finezza, così da diventare due figure emblematiche, che offrono una duplice lezione. L’evangelista infatti afferma che «Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi».
La prima “lezione” è naturalmente facile e si connette alla figura della donna. Essa è il modello della costanza che invoca, che spera, che attende. In lei si intravedono tutti i cittadini del Regno di Dio, cioè i poveri, gli afflitti, gli affamati, i perseguitati delle Beatitudini, coloro la cui unica fiducia è in Dio. Ed è per questo che la loro preghiera è senza sosta perché è alimentata dalla speranza. Ma l’altra “lezione” a prima vista può risultare imbarazzante. Gesù nella sua applicazione compara Dio a quel giudice iniquo. Ovviamente ciò avviene solo per sviluppare un argomento che si usa definire a fortiori: se un personaggio tanto cinico come quel giudice finisce col piegarsi davanti alle suppliche di una povera vedova, quanto più sarà pronto il Signore, che è giudice giusto, a chinarsi sulle sofferenze delle sue creature.
La parabola vuole, allora, rispondere alle perplessità dei credenti ai quali sembra che Dio sia apparentemente lontano e indifferente. L’appello alla vigilanza orante, alla perseveranza fiduciosa porta con sé anche la certezza che l’agire divino è, sì, spesso misterioso, deciso a seguire percorsi che non sono i nostri, pensieri che non combaciano con i nostri (cf Is 55, 8), ma che l’approdo è nella luce e non nel baratro del nulla e del male. Anzi, egli non farà aspettare «a lungo» i suoi fedeli ma apparirà per rendere loro giustizia «prontamente» o, come si può anche tradurre, «all’improvviso». Il racconto da “lezione” sulla preghiera costante si trasforma, dunque, in messaggio destinato ad alimentare la speranza dei giusti.
Tuttavia il brano finisce con una frase da brivido: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». E un sospetto terribile. Le vedove che giorno e notte gridano verso Dio stanno diminuendo, i giusti che si impegnano per la verità e l’amore spesso si stancano, la superficialità stende su tutto il suo velo mortale, «per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti» (Mt 24, 12). Ma, continua Gesù – ed è questo l’appello rivolto a noi che oggi l’ascoltiamo -, «chi persevererà sino alla fine, sarà salvato» (Mt 24, 12-13).
L’interrogativo tragico di Gesù, però, rimane senza risposta, perché è ognuno di noi a doverla dare. È un avvertimento e un allarme. I nostri Santi, le cui immagini arricchiscono simbolicamente la nostra assemblea liturgica, intercedano per noi, mentre rinnoviamo fiduciosi la richiesta dei discepoli: «Signore, insegnaci a pregare!».