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Ancora una volta, questa notte, il Natale ritorna a noi con la consolazione del suo messaggio di speranza, con il fascino dei sentimenti di bontà e di pace che suscita, con l’incanto della sua atmosfera serena.
La “grande gioia” annunciata a Betlemme dall’angelo, di cui ci ha parlato il Vangelo, è l’entusiasmo per la porta del cielo che si è finalmente disserrata e per l’umanità che ha potuto accogliere il suo Salvatore. Lunghi secoli avevano implorato quel momento. Tutte le genti avevano almeno inconsciamente anelato a un ingresso di Dio nell’oscura e dolorante vicenda umana: un ingresso che riuscisse a dissipare le nebbie degli errori e dei dubbi, a sciogliere le durezze e le malignità dei cuori, a ridare senso e destino a un’esistenza che troppo spesso appare senza valore e senza traguardo. I secoli e le genti attendevano impazienti una manifestazione del Creatore: «O se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63, 19), aveva sospirato il profeta.
Ed ecco che i cieli si dischiudono davvero, nel silenzio notturno di una campagna palestinese. Si dischiudono su una stalla e nasce un bambino. Il Signore è sempre sorprendente e imprevedibile nelle sue iniziative. Anche Isaia – l’abbiamo ascoltato – nel suo grido preannunziatore sembra far vibrare tutta la sua meraviglia: «Un bambino è nato per noi…e sulle sue spalle è il segno della sovranità » (cf Is 9, 5).
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Dio ha congiunto alla fragilità di un bambino la potenza del suo Regno e l’infinità della sua misericordia. In questo bambino, che è l’Unigenito del Padre, uguale e consostanziale a lui e allo Spirito Santo, Dio è con noi, Dio si è fatto uno di noi, Dio è per noi.
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Per noi, e specialmente per i più miseri e sventurati. Il Verbo eterno nasce nel tempo e quasi si confonde nella folla delle creature effimere e sottomesse alla sofferenza; dalle altezze divine scende a livello degli umili; si spoglia della potenza e della gloria che da sempre possiede e si fa compagno e fratello di coloro che al mondo non contano e non hanno fortuna.
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Dopo che la porta del cielo si è aperta per donarci il Signore della verità e della vita, è necessario che ad accoglierlo si apra anche la porta del nostro cuore. La salvezza è discesa dall’alto perché da soli non potevamo salvarci: da soli possiamo solo respingerla. C’è nell’uomo la tragica libertà di dire di no al Dio che è venuto per lui.
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Se ci ripieghiamo su noi stessi e sul nostro egoistico tornaconto, noi voltiamo le spalle al Salvatore. Per trovarlo bisogna fare come i pastori e i magi: andare a cercarlo con fede semplice e generoso spirito di solidarietà presso coloro con i quali egli si è messo. Andiamo verso gli umili, perché più non siano umiliati. Andiamo verso coloro che soffrono per la giustizia, così da contribuire per quel che possiamo a che un po’ di giustizia sia fatta. Andiamo verso i malati e gli infelici, perché si sentano un po’ meno abbandonati. In questo momento particolare, non manchino la solidarietà e la condivisione con quanti, singoli e famiglie, devono affrontare il peso della crisi e guardano con incertezza e preoccupazione al presente e al futuro.
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Nella prima lettura abbiamo udito il grido del profeta, che già prevedeva questa ora di gioia: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9, 1). È la luce della verità , che è venuta a rivelarci la nostra origine e la nostra mèta. È la luce che ci offre l’unica risposta plausibile alle questioni sostanziali, che fatalmente fioriscono nell’animo di chi non rinuncia a pensare: senza questa risposta, l’uomo non può serenamente, da creatura ragionevole, né vivere né guardare in faccia alla morte.
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La pagina del vangelo di Luca, che ci affascina con la sua umanissima semplicità , ha però una pungente nota di tristezza quando dice a proposito di Maria e del nascituro: «Non c’era posto per loro» (Lc 2, 7). L’albergatore di Betlemme aveva trovato posto per tutti, tranne che per il suo Salvatore e Signore.
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Non cà piti anche a noi di fare altrettanto: di lasciare che la mente, il cuore, la coscienza si ingombrino di mille pensieri senza sapienza, di mille desideri senza nobiltà e senza rettitudine, di mille preoccupazioni effimere e vane. In tal caso, c’è il rischio che Colui che viene e picchia alla nostra porta interiore non trovi più spazio nella nostra intelligenza, nel nostro cuore, nella nostra vita.
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Nel Natale brillano di una luce più calda e più emozionante le dolci parole che Gesù rivolge a ciascuno di noi dal libro misterioso e splendente dell’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui; e a tu per tu noi ceneremo insieme» (cf Ap 3, 20).
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Se sapremo aprire la nostra porta, sarà davvero un buon Natale. È l’augurio e la preghiera che il Vescovo di questa Chiesa depone per tutti voi sull’Altare del Signore.
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