Cari fratelli e sorelle,
con questa celebrazione nel cuore della Settimana Santa, la Chiesa ci invita a ricordare il dono del sacerdozio: quello di tutti i battezzati, membri dell’unico popolo di Dio quale popolo sacerdotale, e quello dei presbiteri, scelti e consacrati da Cristo perché nell’annuncio della Parola, nella celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti e nella guida della comunità ecclesiale possano agire come strumenti vivi e personali di lui, Capo e Pastore della Chiesa, suo Corpo e suo gregge.
In questa luce, pensiamo con gratitudine a quanti durante l’anno ci hanno preceduto nella casa del Padre: don Giulio Martelli, cpps, don Ezio Campagnani, don Eusebio Severini, don Angelo Corona, don Luciano Nanni e don Giovanni Marchetti. A loro desidero associare nel ricordo orante l’Arcivescovo Mons. Antonio Ambrosanio, chiamato proprio 20 anni fa al premio eterno. E ci uniamo cordialmente al cantico di lode e di azione di grazie per i 50 anni di sacerdozio di don Giuliano Medori e di p. Mario De Santis, osa; per i 65 anni di don Baldino Ferroni, don Sante Quintiliani e p. Remo Piccolomini, osa; per i 70 anni di don Aldo Giovannelli e per i 79 anni di p. Luigi Giuliani, osa.
La liturgia che stiamo celebrando ci invita a sentire con forza come il presbiterato sia un dono personale, personalissimo: quella sera, nell’Ultima Cena, ciascuno di noi sacerdoti è stato il termine vivo del pensiero, della volontà, dello sguardo e dell’amore di Cristo; tra gli apostoli seduti alla tavola pasquale, Gesù vedeva il mio volto e segnava il destino della mia vita chiamandomi ad essere suo ministro. Dice Papa Francesco: «Tutto, nella nostra vita, oggi come al tempo di Gesù, incomincia con un incontro. Un incontro con quest’Uomo, un uomo come tutti e allo stesso tempo diverso… Gesù Cristo sempre è primo, ci aspetta; Gesù Cristo ci precede sempre; e quando noi arriviamo, Lui stava già aspettando. Lui è come il fiore del mandorlo: è quello che fiorisce per primo, e annuncia la primavera». All’origine di tutto sta questo sguardo, questa chiamata che affascina ed invia. Lo sappiamo bene: ogni vocazione nasce nell’amore e sfocia nella missione: «Lo Spirito del Signore è su di me; lo Spirito del Signore mi ha mandato…». È necessario che ne prendiamo continua coscienza.
Questa coscienza, però, non consiste nella semplice disponibilità ad eseguire degli ordini, non è un generico invito a darsi da fare, ad ingegnarsi per escogitare qualcosa di nuovo. È una coscienza sacra e santa, che viene dall’alto, che tocca il fondo del cuore, che pervade e illumina la mente, che accende il fuoco dell’amore, che non viene mai meno, che spinge a guardare con scioltezza e fiducia ai pericoli e agli ostacoli di qualunque genere e da qualsiasi parte vengano.
Quando questa coscienza si attenua, ci si attacca a cose esteriori: ai numeri, al successo, all’indice di ascolto, al gradimento; ci si consola pensando che vi sono ancora tanti interessati ad ascoltare la parola della Chiesa o al contrario ci si rattrista pensando a quanti non la vogliono ascoltare. Oppure si viene colti da quella che Papa Francesco ha definito “la malattia delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi”: «È una malattia grave, che inizia semplicemente, magari solo per fare due chiacchiere – dice il Papa -, e si impadronisce della persona facendola diventare “seminatrice di zizzania” (come satana), e in tanti casi “omicida a sangue freddo” della fama dei propri confratelli. È la malattia delle persone vigliacche, che non avendo il coraggio di parlare direttamente parlano dietro le spalle… Fratelli, – conclude – guardiamoci dal terrorismo delle chiacchiere!».
Ma non può né deve essere questo il metro su cui misurarsi. Ciò che mi pare sommamente importante è che la Chiesa diocesana tutta e ciascuno di noi abbia la coscienza di aver ricevuto un mandato significativo e vitale per il mondo di oggi e per questa nostra società. È il Signore risorto e vivente che ogni giorno, per la voce esterna della Chiesa e per la voce e l’unzione interiore dello Spirito Santo, manda me e te e tutti per una missione. Ciascuno di noi si sente interpellato dalla voce di Dio che risuona nel Tempio e domanda: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E se forse, soprattutto dopo esserci resi conto di quanto arduo sia il ministero apostolico, non abbiamo sempre il coraggio o la prontezza di dire: «Eccomi, manda me» (Is 6, 8), ci conforta in ogni caso la parola di Gesù: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Se il Signore ci manda per questo “oggi” del mondo non mancherà di farci vedere, passo dopo passo, quali strade dobbiamo percorrere e quali scelte dobbiamo operare. È vero che non di rado ci domandiamo se i nostri cammini apostolici siano giusti o se siano i più efficaci e se e come debbano essere rinnovati. Ma viene certamente dal Maligno quel senso di confusione o di amarezza o di frustrazione che talora ci agita e ci fa perdere la serenità dell’impegno nel momento presente. Mentre è dono e consolazione dello Spirito la fiducia che il Signore ci sta guidando qui e ora, anche nella nebbia e nella notte, e che sarà lui a correggere e a pilotare i nostri cammini quando li compiamo con fiducia totale nella sua guida e nel suo mandato. Fedeli laici, diaconi, sacerdoti, vescovo, è Cristo stesso che ci domanda di non fondare i nostri progetti parrocchiali e diocesani sulle sole nostre forze, sempre e comunque insufficienti. Tutto ciò che intraprendiamo deve essere fondato sulla fede in Colui che tutto può (cf Fil 4, 13). Con Lui, passiamo dalle parole ai fatti, modestamente ma realmente. Con Lui, possiamo osare il cambiamento. Con Lui, affrontiamo la missione.
Una missione che non è impresa personale di qualche eroe solitario o di qualche funzionario competente; essa è piuttosto un frutto della comunione ecclesiale che deve trovare nella comunione nel clero un punto di riferimento simbolico convincente. Non c’è dubbio, infatti, che sono i preti in fraternità visibile tra loro e con il vescovo i primi attori dell’unità della diocesi. Lo sono per il loro ministero: sono stati infatti consacrati dallo Spirito Santo ed hanno ricevuto l’unzione con il Sacro Crisma per essere segno e strumento di Gesù buon pastore, che riunisce e presiede il suo popolo. Ma lo sono anche per la loro disponibilità, vissuta generosamente in luoghi e modalità differenti, annunciando lo stesso Vangelo, celebrando gli stessi sacramenti, manifestando la stessa solidale carità per il bene di tutti. Per questa disponibilità, per il vostro impegno quotidiano, per la vostra vita donata al servizio di Dio e degli uomini, vi esprimo, cari fratelli sacerdoti, la mia gratitudine personale e quella di tutti i fedeli della diocesi.
Raccogliamo insieme questa sera, con cuore aperto e umile, un appello rinnovato all’unità tra di noi, memori della parola del Signore, che ha garantito la sua presenza a quanti si riuniscono nel suo nome (cf Mt 18, 20). Dobbiamo sempre di nuovo imparare uno sguardo, una benevolenza, una disponibilità all’obbedienza e al confronto che danno anche alle relazioni più ordinarie la qualità dell’amore fraterno. Siamo realisti: il presbiterio non è la terra promessa dove tutto è esemplare e perfetto; è piuttosto un insieme di uomini santi per vocazione e peccatori per condizione, persone che nel ministero e nella vita privata esprimono le loro virtù e anche le loro fragilità e inadeguatezze. Lo sguardo che lo Spirito ci suggerisce non è quello che indulge alla complicità o si abbandona al pettegolezzo e alla mormorazione o si permette il giudizio sbrigativo; è piuttosto quello che sa apprezzare e perdonare, sostenere e correggere, imparare e ammirare e rendere grazie. Ci ammonisce ancora Papa Francesco: «Quando siamo noi a voler fare la diversità e ci chiudiamo nei nostri particolarismi ed esclusivismi, portiamo la divisione; e quando siamo noi a voler fare l’unità secondo i nostri disegni umani, finiamo per portare l’uniformità e l’omologazione».
Ancora una volta si apre davanti a noi un cammino arduo ed esigente, che fa sorgere spontanea la domanda: «Che cosa dobbiamo fare?». La risposta è antica e sempre nuova: contemplare Gesù, lasciarsi guardare da Lui, accogliere in noi i suoi sentimenti per essere capaci di ripetere in verità i suoi gesti e le sue parole. Non ci è permesso di dimenticare, infatti, che il primo e più efficace servizio pastorale che possiamo e dobbiamo assicurare alla comunità che ci è affidata è la cura della nostra vocazione, la cura della nostra vita interiore, memori delle raccomandazioni ricevute nell’ordinazione diaconale e presbiterale: «Credi sempre ciò che proclami, insegna ciò che hai appreso nella fede, vivi ciò che insegni. Renditi conto di ciò che fai, imita ciò che celebri, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore».
A questo proposito desidero richiamare il dovere di coscienza – che incombe a ciascuno di noi – di dedicare ogni anno un tempo congruo agli Esercizi Spirituali, per entrare in più profonda sintonia con il Signore e ritrovare le motivazioni originarie della nostra consacrazione, la forza per il nostro impegno e la sorgente della nostra gioia. La diocesi non manca di offrire questa possibilità: invito ad approfittarne saggiamente. Ricordiamo che trascurare la nostra formazione spirituale non soltanto danneggia noi stessi, impoverendo la nostra vita interiore e riducendoci a “funzionari del sacro”, ma come conseguenza defrauda i fedeli di quella testimonianza di santità e di quella fecondità apostolica cui hanno diritto.
Altra occasione preziosa per qualificare il nostro rapporto con Dio e l’esercizio del nostro ministero è il ritiro mensile del Clero, occasione privilegiata per nutrirsi insieme alla mensa della Parola, dell’Eucarestia e della fraternità. Non sia pretesto per una partecipazione saltuaria o ridotta nell’arco della giornata un qualche impegno pastorale che si può facilmente trasferire ad altro momento o altra data. Certamente, anche la comunità cristiana, opportunamente informata che il suo prete è assente dalla parrocchia perché si ritrova a pregare con il vescovo ed i confratelli, saprà apprezzare questo autentico “investimento apostolico”. E come vorrei che lo scrupolo che trattiene qualcuno dal binare nel giorno del ritiro venisse applicato con altrettanta rigidità nell’azione quotidiana in parrocchia!
Non posso poi non fare riferimento alla preghiera che ogni primo sabato del mese, ormai da sei anni, riunisce puntualmente un buon gruppo di fedeli per invocare il dono di nuove vocazioni sacerdotali per la nostra Chiesa. Continuo a sognare che i preti siano i primi e i più numerosi a prendere parte a questo pellegrinaggio e faccio appello a quello che oso definire “spirito di corpo”: cari fratelli, se non ci diamo da fare noi per le vocazioni sacerdotali, innanzitutto mettendoci in ginocchio davanti a Dio, chi lo dovrebbe fare?
A partire da queste considerazioni, vi invito a continuare con fiducia quel percorso di “conversione pastorale” che ci viene richiesto nell’esercizio del ministero ricevuto per l’amore ed il servizio della nostra Chiesa locale. Mi riferisco in particolare alla costituzione delle Pievanie che, come scrivevo nell’ultima Lettera pastorale, non sono «una “super-parrocchia” che sostituisce le parrocchie, ma piuttosto uno strumento al loro servizio e per la loro crescita, secondo una logica “integrativa” e non “aggregativa”, per uno slancio pastorale d’insieme. (La Pievania), dunque, non elimina le parrocchie, la loro storia e identità; non nasce per contrapposizione o per spirito di parte, né è il risultato di una complessa azione di ingegneria pastorale; essa nasce per fare in modo che ogni parrocchia … evangelizzi meglio e non da sola. L’unica ragione è ecclesiologica: una maggiore fedeltà al Vangelo e una migliore visibilità della Chiesa come mistero di comunione e di missione».
Guardo pertanto con vivissima riconoscenza a tutto ciò che in questi mesi si sta vivendo a livello di Pievania tra i preti e nelle diverse comunità e che manifesta come in diocesi, lentamente ma sicuramente, cresca l’unità nella diversità. Penso a quanti sono strumenti, attori e beneficiari della comunione che lo Spirito Santo crea tra noi: i sacerdoti, i diaconi e le persone consacrate, i numerosi operatori pastorali, tutti attivi per l’annuncio del Vangelo, la celebrazione della Salvezza e il servizio degli altri nella società e nella comunità ecclesiale. E non dimentico gli ammalati e le persone anziane che, con la preghiera e l’offerta, contribuiscono per la loro parte alla fecondità della missione della nostra Chiesa.
Tutte queste operazioni, però, non hanno senso se non in rapporto a Cristo e al primato della grazia. Cambiare le tradizioni pastorali, tentare qualcosa di nuovo, entrare in una prospettiva di cambiamento richiede ferma convinzione e anche sforzo generoso, ma non assicura necessariamente il successo. Il rafforzamento della vita in Cristo e della vita ecclesiale, invece, permette sicuramente allo Spirito Santo di aprire per noi spazi nuovi nei quali respirare aria pura. Per la realizzazione dei progetti che stiamo affrontando e che ci appassionano in obbedienza al mandato ricevuto da Cristo, ci è richiesto di impiegare certo maggiore energia ma, paradossalmente, minore fatica, stanchezza o scetticismo di quando si fa unicamente ciò che si è sempre fatto e si vuole conservare tutto nella ricerca di una sicurezza illusoria.
Crediamo fermamente che lo Spirito Santo ci indica momento per momento come dobbiamo seminare e sperare, anche se non vediamo subito il frutto del nostro lavoro. Quando sentiamo crescere le nostre fatiche, anche per il diminuire del numero dei preti, ed esperimentiamo quanto sia difficile fare unità nella nostra esistenza personale e tra di noi per le tante urgenze che incombono, rinnoviamo la nostra fede nel mandato del Signore Gesù, e mettiamo la nostra mano nella sua, sicuri che la sua guida non vacillerà né verrà meno.
«A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen».