Mentre a Roma si decidono le sorti del mondo e le legioni mantengono la pace con la spada, mentre a Gerusalemme Erode e i sommi sacerdoti si spartiscono il potere, in questo meccanismo perfettamente oliato cade un granello di sabbia sufficiente a mutare la direzione della storia: nasce un bambino; Dio pianta la sua tenda nello sterminato accampamento degli uomini. E non l’ha più smontata. Questa messa natalizia, celebrata nella notte, è quasi il risveglio di una poesia antica e nota, ma sempre eloquente e suggestiva. Perfino il nostro mondo, smaliziato e tendenzialmente scettico, distratto e stordito dall’affollarsi eterogeneo di troppi messaggi sempre più chiassosi e sempre più sgargianti, oggi per qualche momento sembra farsi attento al fascino insolito della semplicità: la semplicità di una nascita senza splendore, che riesce tuttavia a rischiarare di luce nuova e sorprendente addirittura la scena sordida di una stalla.
Noi però, che abbiamo ritrovato ancora una volta la strada della chiesa e siamo venuti a questo appuntamento annuale, percepiamo che il Natale ci offre qualcosa di ben più grande di un’emozione estetica e sentimentale: questa notte ricordiamo e riviviamo non un mito o un’idea, ma la consistenza di un fatto; il fatto certo e cronologicamente situato del Signore altissimo ed eterno che diventa l’Emmanuele, cioè il “Dio con noi”. È la festa della riconciliazione tra l’umanità sviata, persa, ribelle, e il suo Creatore che nonostante tutto rimane fedele al suo originario disegno d’amore.
Risuona dunque anche per noi la parola dell’angelo ai pastori sbigottiti: «Vi annuncio una grande gioia: vi è nato un salvatore» (cf Lc 2,10-11). Dio è con noi: questa è la “buona notizia”. L’umanità dei nostri giorni – alle prese con terrori nuovi e inimmaginabili, oltre che con gli smarrimenti e le angosce di sempre – non deve sentirsi abbandonata e sola! Oggi, con il Figlio di Dio, nasce e si accende un’immensa speranza; una speranza più forte di ogni paura.
Ogni volta che l’uomo ha voluto spegnere nel mondo la luce accesa con la nascita di Gesù, il risultato è stato un buio fatto di orrori. Nelle varie epoche si è tentato di spegnere la luce di Dio per accendere bagliori illusori e ingannevoli e così si sono aperte stagioni segnate da tragiche violenze sull’uomo. Perché, quando si cerca di cancellare il nome di Dio sulle pagine della storia, il risultato è che si tracciano righe storte, dove anche le parole più belle e nobili perdono il loro vero significato. E così termini come libertà, bene comune, giustizia, privati del radicamento in Dio e nel suo amore, riemergono in balìa degli interessi umani, perdendo l’aggancio con le necessarie esigenze di verità e di civile responsabilità. Ma nessuno è mai riuscito a sopprimere la storia di luce e di amore iniziata duemila anni fa a Betlemme: questa luce altissima non solo non ha subito alcun calo di tensione col passare dei secoli e dei millenni, ma continua a risplendere su di noi e a illuminare ogni uomo che viene nel mondo, specialmente quando dobbiamo attraversare momenti di incertezza e difficoltà. È compito di ciascuno attingere costantemente a questo patrimonio e incrementarlo, per poter affrontare le urgenze sociali e le sfide culturali che si moltiplicano nel nostro tempo.
Nell’incantevole pagina che l’evangelista Luca dedica all’avvenimento di Betlemme, colpisce l’insistenza sul particolare della mangiatoia, il solo indizio che la nascita di Gesù è avvenuta in una stalla (cf 2, 7; 2, 12; 2, 16). La mangiatoia è il segno e l’avvertimento che i più grandi prodigi divini preferiscono avvalersi dei mezzi più miseri, e quasi rivestirsi di povertà e di squallore. Così siamo ammoniti che il Dio salvatore ama rivolgersi a coloro che sono “piccoli” – economicamente, socialmente, culturalmente – o almeno a coloro che non esitano a farsi piccoli e deboli nel loro spirito e nella loro vita, perché la grandezza e la potenza di Dio possa operare in loro liberamente. Soprattutto la mangiatoia (e quindi la stalla) ci ricorda che per il Figlio di Dio venuto per la nostra salvezza «non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2, 7) e in nessun’altra casa di Betlemme. Quel Dio che si offre a tutti, che per quel che sta in lui non esclude nessuno, accetta il rischio di essere rifiutato: «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1, 11), osserva malinconicamente l’evangelista Giovanni; un rifiuto che proseguirà e condurrà Colui che è nato a Betlemme fino alla condanna, da parte dei capi e dei dotti del suo popolo, e alla morte di croce.
Ma questo, per la verità, non è un rischio suo: è un rischio nostro. È il rischio che, dicendogli di no e non lasciandoci salvare da lui, noi arriviamo a vanificare l’incredibile amore del nostro Creatore e per ciò stesso a vanificare e a rendere sterile la nostra vita. Allora la grazia più vera e più bella – che in questa santissima notte possiamo e vogliamo chiedere per noi, per quanti ci sono cari, per tutti – è di saperci arrendere alla misericordia che è venuta ad investirci dall’alto e di accogliere, senza riserve e senza i calcoli insipienti delle nostre prospettive puramente terrene, Colui che nel suo Natale si è fatto a noi così amabile e così vicino. E sarà per noi una stupefacente fortuna: «A quanti lo hanno accolto – ci rivela esultando san Giovanni – ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome» (Gv 1, 12).
Buon Natale, cari fratelli e sorelle, nella luce e nella pace del Signore che viene!