Carissimi amici e fratelli,
È con viva riconoscenza al Signore che in questa celebrazione vogliamo ricordare il nostro sacerdozio, dono gratuito che abbiamo ricevuto e fonte continua di grazia per noi, per la Chiesa e per tutto il popolo di Dio pellegrino in Spoleto-Norcia. Nel sacramento dell’Ordine si racchiude tanta potenza di grazia che viene da chiederci: perché proprio io, Signore, sono stato amato a tal punto da essere investito di una grazia così grande? Qual è il motivo della tua scelta? La risposta di Dio è la stessa del salmo: «Io ti ho trovato mio servo, ti ho consacrato con il mio santo olio, la mia mano è il tuo sostegno e il mio braccio è la tua forza» (cf Sal 89, 21-22). Sì, Dio è stato ed è nostra forza e nostro sostegno, sempre ed in ogni momento.
Oggi vogliamo riconoscere solennemente tutto questo come atto di gratuità assoluta da parte di Colui che ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue ed ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre (cf Ap 1, 5-6); oggi sentiamo nostre in modo particolare le parole di Cristo nella sinagoga di Nazareth (cf Lc 4, 18), perché di quello che egli attribuisce a se stesso ci ha resi partecipi in quanto suoi presbiteri nella Chiesa. La certezza di essere stati consacrati con l’unzione dello Spirito e di essere stati mandati qualifica la nostra identità ed il nostro ministero. Dobbiamo guardarci dal permettere che il sacerdozio cessi di essere per noi la realtà più importante ed essenziale da curare, proteggere, far crescere come elemento unificante di tutto ciò che siamo e facciamo. Perché proprio la comune partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo genera ed alimenta misteriosamente e sacramentalmente tra noi un legame vitale che ci precede, ci è partecipato come dono e ci costituisce in “presbiterio”.
A volte questo presbiterio può apparire come tanti cerchi chiusi in se stessi, l’uno tangente all’altro ma non compenetrati in profondità. Al contempo, tutti avvertiamo l’urgente bisogno di riscoprire questo presbiterio come “la mia famiglia”. In una famiglia, marito e moglie si scelgono; da noi non è così: noi non ci scegliamo; Qualcun altro ci ha scelti (cf Gv 15, 16). Quando Gesù ha chiamato i Dodici, in loro c’era già ciascuno di noi, con la propria storia di grazia e di peccato. Dobbiamo allora fare costantemente ritorno a quella “chiamata” originaria e originale che ha preso forma in noi in modo unico e irripetibile, ponendo al centro del nostro discepolato Colui che prima che fossimo intessuti nel seno materno già ci conosceva (cf Sal 139). La “cifra” della nostra comunione, il punto di riferimento unitario del presbiterio è e rimane Gesù Cristo, Vangelo di Dio, sorgente e verità della comunione tra noi preti.
In questa prospettiva, riscopriamo alcuni tratti costitutivi della famiglia presbiterale: condividere il nostro rapporto personale con il Signore, parlando senza pudore della nostra ricerca ed esperienza quotidiana di Dio; confortarci a vicenda nelle prove, comunicate e non tenute dentro, nella disponibilità vissuta a portare gli uni i pesi degli altri (cf Gal 6, 2); evitare che i nostri contatti siano per lo più contatti di lavoro, pressoché di “funzionariato”; praticare il perdono vicendevole, affidandoci con fede e fedeltà al perdono sacramentale; dirsi la verità, senza finzioni, consapevoli che la bisaccia dei nostri difetti è posta dietro le nostre spalle, impossibile a vedersi con i nostri occhi se qualcuno, per amore e con amore, non ce li manifesta; domandare incessantemente insieme nella preghiera che il Signore Iddio continui a tenerci ogni giorno la mano sulla testa.
Non siamo dei capi che gestiscono in proprio una professione, pur così alta e nobile; siamo parte integrante e membra di un unico corpo di servi del Signore e dei fratelli. L’individualismo pastorale logora i rapporti e, se può apparire immediatamente più produttivo in casa propria, alla lunga non lo è per il regno di Dio. Dobbiamo lavorare insieme per rendere il nostro presbiterio un soggetto forte e di sostegno reciproco, garantendo così un effetto moltiplicatore anche delle nostre fatiche: quando i preti si vogliono bene, si stimano e si sostengono a vicenda, sono una testimonianza persuasiva e raggiungono anche pastoralmente migliori risultati.
Il ministero del presbitero è un fatto eminentemente comunitario nel senso che egli agisce sempre insieme e per conto del vescovo e del presbiterio in cui è inserito. Tale fatto, chiaro sul piano teorico, diventa difficile su quello pratico di ogni giorno. Ci possono aiutare al riguardo il cammino e le scelte diocesane, che rappresentano l’alveo dentro cui muoversi e camminare insieme. Quanto amerei, come vescovo, vedere una partecipazione corale e convinta dei “miei” preti (e voi sapete con quanto rispetto e trepidazione pronuncio questo “miei”…), quanto amerei vedere – dicevo – una partecipazione corale e convinta dei “miei” preti ai diversi eventi celebrativi e formativi proposti dalla diocesi! Non si tratta semplicemente di applicare gli orientamenti stabiliti, di aderire ad un invito pressante o di cedere alle insistenze del vescovo o di un confratello; si tratta di una mentalità e di uno stile pastorale che devono ricercare sempre l’unità e la comunione. Le vie solitarie sembrano, a volte, più immediatamente produttive ed efficaci, ma in realtà non producono frutto alcuno, perché sono prive di quella grazia particolare che è appunto la comunione, senza la quale battiamo l’aria, anche se lavoriamo giorno e notte, corriamo molto ma invano e senza mai raggiungere la meta sperata. Ce lo ricorda in modo incisivo sant’Agostino: «Chi abbandona l’unità, viola la carità; e chi viola la carità, per quanto grandi siano i doni che può avere, non è nulla» (Sermo 88, 18, 21: PL 38, 550). Quando qualcuno, singolo o in gruppo, si apparta e nega la sua partecipazione alla vita liturgica e pastorale della comunità parrocchiale, vicariale o diocesana, ritenendo di avere motivi per farlo, in effetti si separa dall’unica Chiesa, che è quella che si costruisce intorno al vescovo «visibile principio e fondamento di unità» (LG 23). Perciò chiedo vivamente ancora una volta che nessuno si chiuda nell’orgoglioso fortilizio delle proprie umane ragioni, alimentando inutili e dannose divisioni, ma si apra con autentico spirito cristiano alla fraternità e alla scambievole collaborazione, per essere autentici costruttori di Chiesa.
Guardando dunque alla nostra famiglia presbiterale, ricordiamo con viva riconoscenza quanti in questo anno ci hanno preceduto nella Casa del Padre: don Jean Paul Matoe, Mons. Sergio Virgili, don Ludovico Bella, don Carlo Cardarelli, Mons. Salvatore Leonardi e don Antonio Guidi e li affidiamo alla bontà e alla misericordia di Dio. Il mio pensiero va poi a don Feliziano Luconi, don Franco Albanesi e padre Angelo De Sanctis, passionista, che celebrano il 50.mo anniversario di ordinazione, e infine ai confratelli anziani e malati, che rappresentano, come in ogni famiglia, una risorsa ricca di grazia da accogliere con gioia e solidale amicizia. Sappiamo che la loro preghiera e la loro unione ideale con tutti noi accompagna quotidianamente il cammino della nostra Chiesa.
La scadenza dei 75 anni è un momento difficile per tutti, ma anche di umiltà, che produce molto frutto sia per la propria santità personale che per l’esempio di obbedienza che si offre ai fedeli. Desidero qui esprimere viva riconoscenza a quanti, con grande serenità e libertà interiore, senza risentimenti e lamentazioni, hanno rimesso il mandato parrocchiale dopo un lungo e benemerito servizio. Conto sul prezioso contributo che ancora possono dare non solo sul piano dell’agire pastorale ma anche con una presenza attiva nel presbiterio, che si vede arricchito della loro esperienza e generoso impegno.
Penso poi ai preti giovani. I primi anni di ministero necessitano di uno speciale accompagnamento spirituale e pastorale, ma anche paterno e fraterno, da parte del vescovo e dei parroci e presbiteri del Vicariato in cui essi sono inseriti. Chiedo a tutti i preti più avanti negli anni di assicurare ai più giovani confratelli una vicinanza amica, fatta di vera fraternità, di ascolto, accoglienza e consiglio; ai presbiteri giovani raccomando di sviluppare, imponendoselo se necessario come dovere, un costante dialogo con il padre spirituale e con il vescovo e di curare forme di unione amicale e gioiosa con i compagni.
Un grave e primario impegno di tutto il presbiterio è quello delle vocazioni. E ciò non solo per evidenti ragioni di personale, ma innanzitutto per essere aperti al dono gratuito di Dio, che continua a chiamare là dove il terreno è fecondo e la santità dei suoi ministri manifesta la sua potenza nella debolezza (cf 2 Cor 12, 9). Le vocazioni segnano la temperatura spirituale delle nostre comunità e ne manifestano il radicamento evangelico, ma segnano anche la nostra comunione presbiterale e ne testimoniano la sincerità e la profondità umana, spirituale ed ecclesiale. Sacerdoti santi e un presbiterio santo non possono non suscitare vocazioni nel popolo di Dio. Parte dunque dal nostro rinnovamento spirituale la prima via della pastorale vocazionale e su questo si misura il nostro comune impegno a favorirne la crescita e lo sviluppo. È difficile, infatti, che una vocazione al sacerdozio nasca senza un rapporto stretto con un sacerdote, senza contatti personalizzati con i ragazzi e i giovani, senza amicizia e paziente accompagnamento spirituale. Se i ragazzi e i giovani ci vedono sempre indaffarati per troppe cose, trascurati nella preghiera, pronti allo scontento, al lamento e alla critica dei confratelli, se ci vedono distanti dalla loro esperienza di vita, come potranno essere attratti dal sacerdozio? Se invece sperimentano in noi la gioia e l’entusiasmo di essere ministri di Cristo, la generosità nel servizio alla Chiesa, la prontezza nel farsi carico delle situazioni spirituali, umane e familiari delle persone, saranno spinti ad interrogarsi se non possa questa essere anche per loro la via migliore da seguire nella vita.
A questo proposito, non posso non menzionare il pellegrinaggio orante del primo sabato del mese al Santuario della Madonna della Stella, dove la nostra gente continua a dare esempio di costante fedeltà; ricordo poi la mia richiesta di inserire ogni domenica nella preghiera dei fedeli una particolare intenzione per le vocazioni al sacerdozio; e rinnovo l’invito a costituire ed accompagnare, almeno nelle parrocchie più popolose, un gruppo di ministranti, adolescenti e giovani.
Gesù nel vangelo ci ha detto che la profezia di Isaia sul Servo-Messia, mandato ad annunziare ai poveri il lieto messaggio del Vangelo, si è adempiuta “oggi”. Noi sappiamo che quell’oggi indica il tempo di Dio, che è permanente, perché la sua fedeltà è eterna e non viene mai meno. Anche per noi “oggi” si adempie questa fedeltà di Dio, si rinnova e si riattua per ciascuno quella scelta che Cristo ha compiuto quando ci ha chiamati a seguirlo nella via del sacerdozio e, scegliendoci a far parte dei suoi, ci ha amato di più grande amore. Su questa fedeltà appoggiamo la nostra fiducia e le nostre debolezze, sicuri che come roccia indistruttibile essa ci sosterrà in ogni momento.
Sta qui la radice della speranza e della forza, come pure della comunione presbiterale che ci fa una cosa sola con il vescovo e con i confratelli. Per questo io per primo, e voi insieme con me, chiediamo perdono al Signore di ogni peccato contro la comunione che in questo anno trascorso possiamo aver commesso vicendevolmente. Non è un fatto formale, ma sostanziale, perché sappiamo bene che al di là delle diversità umane presenti nel nostro ministero, forte e convinta deve essere sempre la volontà di costruire la comunione tra noi. Se c’è questa volontà, suffragata dalla grazia del Signore, non dobbiamo temere: ogni difficoltà potrà essere superata e la via della carità prevarrà nei nostri cuori.
A Maria, madre di ogni sacerdote, affidiamo l’impegno di crescere nella fede verso il suo Figlio, nella autentica comunione all’interno della nostra Chiesa locale e nella missione universale di salvezza a cui il sacerdozio ci richiama ogni giorno. Amen.