Andare pellegrini in Terra Santa significa mettersi in cammino e fare del viaggio fisico un “cammino dell’anima”.
Nell’antichità il pellegrinaggio, soprattutto in Terra Santa, aveva più che altro una funzione penitenziale, dovuta in parte alle difficoltà che una tale missione comportava: viaggi lunghi e difficili, scomodità, problemi politici e così via.
I pellegrini erano animati da una fede molto profonda ed erano preparati persino a morire, cosa che, a volte, succedeva durante il loro viaggio. Il pellegrinaggio era, infatti, anche l’occasione per espiare le proprie colpe, espiazione che veniva simbolicamente esplicata attraverso la sostituzione della veste civile con quella del pellegrino, espressione appunto di questa volontà. Oggi, con le comodità della vita moderna, con gli alberghi di lusso e i veloci mezzi di trasporto, si è perso quell’aspetto esteriore della penitenza ed il pellegrinaggio si converte spesso in viaggio turistico, persino per quelli che lo intraprendono per motivi strettamente religiosi.
La verità è che non è facile essere pellegrini. La cosa più importante del pellegrinaggio in Terra Santa è la decisione interiore di rispondere alla chiamata dello Spirito in modo personale, come discepolo di Gesù. Pertanto, il pellegrinaggio è anche “cammino di conversione”: il pellegrino ha cioè l’opportunità di vivere l’esperienza del figliol prodigo, di colui che conosce il peccato, la durezza della prova e della penitenza ed il sacrificio del viaggio, ma che conosce anche l’abbraccio del Padre pieno di misericordia che lo riconduce alla vita (cf. Lc 15,24). In questo processo di “cambiamento di vita” per orientarla verso Dio, sarà necessaria la partecipazione al sacramento della riconciliazione, in cui il pellegrino si rende conto del proprio peccato, confessa la sua colpa e riceve la grazia e la misericordia del Signore
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