«Perché? Perché, Signore, hai permesso che la vita di don Gianfranco si spezzasse, perché stroncare un apostolato che produceva frutto? Perché sembra che tu non abbia bisogno di persone nel pieno dell’attività e del rendimento?». Con queste parole l’arcivescovo di Spoleto-Norcia mons. Renato Boccardo ha avviato l’omelia nel rito delle esequie di don Gianfranco Formenton celebrato nella chiesa parrocchiale di S. Martino in Trignano sabato 7 gennaio 2023. Il presbitero, parroco di S. Martino, S. Angelo in Mercole e Montemartano, e nato in Veneto nel 1960, la mattina di Natale ha avuto un arresto cardiaco e dopo dodici giorni di coma irreversibile è tornato alla Casa del Padre. Tantissimi fedeli, i confratelli preti, gli Scout, gli amici, gli ex parrocchiani del sellanese: tutti radunati in preghiera per salutare don Gianfranco e stringersi con affetto accanto ai familiari, in particolare ai fratelli Vito e Renato. La Città di Spoleto era rappresentata dal vice sindaco Stefano Lisci.
Sepoltura a Trevi e Messa di Trigesima il 4 febbraio. Don Gianfranco è stato tumulato, per sua volontà, nel cimitero di Trevi dove c’è la tomba della Congregazione del Suffragio riservata ai preti della Chiesa di Spoleto-Norcia. Sabato 4 febbraio alle ore 18.30 l’arcivescovo Boccardo presiederà nella chiesa di S. Martino la Messa di trigesima per don Gianfranco.
Omelia Arcivescovo. Di fronte al mistero di questa morte anche noi, come le donne che andarono quella mattina al sepolcro, siamo disorientati e vorremmo trovare una risposta al pensiero insistente che dal giorno di Natale abita (e tormenta) il nostro cuore e la nostra mente: «Perché? Perché, Signore, hai permesso che la vita di don Gianfranco si spezzasse, perché stroncare un apostolato che produceva frutto? Perché sembra che tu non abbia bisogno di persone nel pieno dell’attività e del rendimento?».
Di fronte a questa domanda – umanamente lecita e comprensibile – non c’è che il silenzio, come il silenzio e il pianto di Gesù alla notizia della morte dell’amico Lazzaro (cf Gv 11, 35); il silenzio di ognuno di noi di fronte al mistero della vita e della morte; il silenzio per il vuoto che la dipartita di don Gianfranco genera tra i suoi fratelli Vito e Renato e gli altri famigliari, nella nostra Chiesa diocesana e, in modo particolare, in questa comunità di San Martino e di Sant’Angelo di cui per tanto tempo è stato padre e pastore. Ma come l’Angelo il mattino di Pasqua sciolse il silenzio dicendo alle donne: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui», anche noi siamo chiamati a sciogliere il silenzio aprendoci alla novità pasquale: con la fede nella risurrezione e nella vita eterna dobbiamo accogliere la morte di don Gianfranco come il suo passaggio dalla precarietà dell’esistenza terrena alla beatitudine piena, dove il Signore lo ricompenserà di quello che è stato e di quanto ha fatto e ha dato. Perché «quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, – ci ha detto san Paolo – riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli» (2 Cor 5, 1).
Siamo qui per affermare, pur tra le lacrime ma con la forza della fede, che Gianfranco sta nel cuore di Dio. E questo ci conforta e ci incoraggia. L’intensità delle emozioni, i sentimenti più profondi, la memoria che abbiamo di lui sono sostenuti dalla certezza che egli non è svanito nelle ombre della morte e che ora, come Giobbe, trova la conferma di quanto ha costantemente proclamato lungo tutto il suo ministero: «Senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro» (Gb 19, 26). Abbiamo posto sopra la bara il libro della Parola di Dio. Con questo libro don Gianfranco ha preso confidenza, ne ha letto e meditato le pagine per comprenderle e gustarle. Dalle pagine di questo libro si è lasciato educare come cristiano. Quante volte anche da questo ambone lo ha letto, spiegato e commentato alla sua gente, invitandola a prestarvi ascolto attento e docile. Ora faremmo torto a don Gianfranco se non cercassimo, anche noi, di vivere il doloroso distacco da lui, l’evento della sua morte improvvisa e crudele, lasciandoci illuminare e confortare dalle verità contenute in queste pagine. La vita è un dono di Dio. A Lui appartiene l’ora e la modalità della nostra morte. «Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?» (cf Mt 6, 27), domanda Gesù. Anche l’ora della nostra morte è nelle sue mani, dentro un suo progetto che è sempre e solo un progetto di amore, giacché «tutto concorre al bene per quelli che amano Dio» (Rm 8, 28). E il Signore Gesù è ritornato alla vita nello splendore e nella forza della Risurrezione per esercitare una signoria sulla vita e sulla morte delle sue creature: una signoria che è protezione, cura amorevole, realizzazione vera.
Ieri, nella celebrazione dell’Epifania, abbiamo scoperto nei Magi la capacità di guardare lontano: «Abbiamo visto una stella e siamo venuti» (Mt 2, 2). Anche noi abbiamo bisogno di avere occhi capaci di vedere oltre, occhi dilatati, occhi che sono lo specchio di un cuore non rimpicciolito ma abitato dalla nostalgia di orizzonti sconfinati; occhi che cercano e che non smettono di cercare perché sanno che anche nel cuore della notte più profonda, più oscura e più lontana, spuntano stelle luminose. Così erano gli occhi di don Gianfranco, che scriveva: «Vedere con altri occhi è fonte di sofferenza, sebbene questo sia il prezzo che pago volentieri alla vita e che comunque non baratterei mai con una tranquillità seduta e stagnante» (La casa de Jijone, p. 22). I Magi che si muovono, cercano e vedono stelle nel cielo ci dicono che un uomo si misura dal suo camminare, dai desideri che coltiva, dalle domande che fa, da come ha la forza di ripartire sempre di nuovo perché ha accolto davvero e sul serio il messaggio del Natale: c’è un Dio che si fa nostro compagno, che esperimenta le nostre paure, che piange le nostre lacrime, che apre cammini inattesi di vita laddove tutto sembra perduto.
Don Gianfranco «era un amico non facile, ma sicuramente un cercatore di Dio», mi ha scritto in questi giorni una amica scolta vicentina che lui aveva accompagnato nella Route Nazionale dei Piani di Pezza. E noi lo ricordiamo così: fermamente convinto delle proprie idee e difficilmente disponibile a qualche forma di conciliazione, appassionato per una radicalità evangelica che viveva in prima persona e che proponeva senza sconti a chi lo volesse ascoltare. Alcune sue prese di posizione hanno suscitato reazioni contrastanti, ma tutti abbiamo sempre riconosciuto e ammirato la sua genuina passione per la verità e per la forza del Vangelo, che diventava compagnia fedele del cammino di ognuno, con tratti di sensibilità e delicatezza difficilmente immaginabili sotto una scorza apparentemente ruvida e distaccata. «Siamo sempre e comunque guaritori feriti, servi inutili, preziose tessere di un mosaico che ci supera. Verità che ci porti, ti confessiamo, umili, solitari cercatori», scriveva nel suo primo libro La casa di Jijone, che lui definiva “probabilmente anche l’ultimo” (p. 54). La motivazione segreta di tutto questo affonda le radici nella scelta iniziale che lo ha condotto a dare la vita per il suo Signore e per la sua gente: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso» (Ger 20, 7). Perché, scriveva ancora, «sempre amore è rinunciare, perdersi, dimenticare, morire a se stessi» (La casa di Jijone, p. 32).
E il suo essere “assiduo frequentatore di sentieri, rifugi e ferrate” lo ha condotto prima a Forfi e Villamagina, dove ha vissuto il terremoto del 1997 che ha lasciato tracce profonde nel suo animo, e poi a Sant’Angelo in Mercole e San Martino in Trignano. Ovunque non ha risparmiato entusiasmo ed energie per essere “pastore buono del suo popolo”: «Anche per voi continuerò ostinatamente a credere, a coltivare questa inguaribile nostalgia… Per voi il deserto si copre di fiori e i pascoli montani raccontano poesie. Per voi il cammino inutile diventa luminoso e l’orizzonte lontano dischiude una meta» (La casa di Jijone, p. 44). Ed ha donato tempo e fatica, fantasia e tenacia per realizzare il mandato di Baden Powell agli scout: «Cercate di lasciare questo mondo un po’ migliore di quanto non l’avete trovato». Ognuno di noi custodisce in cuore una parola, un incontro, un’omelia, un campeggio, un fuoco di bivacco, anche una discussione o uno scontro con don Gianfranco, e questo costituisce il patrimonio che egli ci consegna stamane.
Ma io vorrei raccogliere da lui anche un’altra eredità: guardo insieme con voi a questa chiesa, che ha voluto con tutte le sue forze e non senza sacrificio, una chiesa non ancora terminata. Sarà compito di tutti portarla materialmente a compimento in sua grata memoria, ma essa è segno dell’impegno generoso da lui profuso per edificare una Chiesa-comunità, casa di tutti dalla quale la luce e la gioia del Vangelo possano raggiungere “quelli di dentro” e “quelli di fuori” e affascinarli per una vita bella e buona. Mi sembra essere questa la missione che dal silenzio della sua bara il vostro parroco affida ora a voi, cari fratelli e sorelle di San Martino, di Sant’Angelo e di Montemartano, e a tutti noi, Chiesa diocesana di Spoleto-Norcia ancora pellegrina sulle strade del mondo. E come vorrei che l’urgenza di una tale missione fosse avvertita da almeno qualche giovane della nostra diocesi, al quale anche oggi il Signore rivolge l’invito a seguirlo nel ministero sacerdotale per occupare il posto che don Gianfranco ha lasciato vuoto nel nostro presbiterio diocesano!
Mentre gli diciamo “a Dio, caro Gianfranco, buone scarpinate sulle montagne del Paradiso!”, mi piace immaginarlo tranquillamente seduto sulle panchine del giardino di Dio ad assaporare un buon sigaro con qualche santo fumatore e a gustare un buon bicchiere di prosecco o di grappa al pino mugo con qualche santo bevitore. Gli chiedo di continuare ad essere vicino a tutti noi, ancora e di più sollecito per il nostro vero bene mentre, ormai partecipe della pienezza di Dio, contempla il Volto glorioso del Cristo di Villamagina. E mi pare di sentirgli dire: «Vi incontro veramente solo qui, amici, compagni ignari della mia solitudine, e benedico i vostri volti nella foschia mattutina quando più chiara è la voce delle nostre notturne utopie sostenibili. Rifare il mondo for se è possibile» (La casa di Jijone, p. 42). A noi accogliere questo saluto. E dargli la valenza di un mandato. Buona strada, don Gianfranco!
Saluto di Diego Catanossi a nome delle parrocchie. Ti ringraziamo, o Signore, per aver intrecciato la storia di Don Gianfranco con la storia di queste comunità. Per la pienezza di un percorso di senso che ha dato dignità e vigore a questo lembo di territorio periferico. Per il coraggio di scelte profetiche: per i no, pronunciati con fermezza di padre e per i sì, figli di pensieri pensati. Per la spiritualità, mai esibita ma sempre curata, mai vuota ma sempre incarnata, bussola di lotte e battaglie veraci. Per la cultura distillata, frutto di itinerari personali che hanno abbracciato teologia e filosofia, letteratura e musica, pedagogia e sociologia, capaci di accendere fuochi comunitari e destare animi giovanili. Per la bellezza delle esperienze condivise pregando, giocando, camminando, contemplando, spezzando il pane. Per la tenerezza di sguardi complici, di abbracci veri, di parole mai banali, di emozioni autentiche. Grazie, O Signore, per questa grazia.
Dacci ora la forza di proseguire in un solco segnato, di non arretrare dalle cime raggiunte, di saper trasformare questo vuoto in desiderio fruttifero, di poter di nuovo affermare che ‘anche questa è stata una cosa ben fatta!’. Ciao Don, ti vogliamo bene!