Sabato 14 dicembre scorso, presso il Chiostro di S. Nicolò a Spoleto, si è tenuto l’interessante convegno proposto dall’Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute sul tema: “La tutela del bene integrale della persona tra accanimento terapeutico e abbandono delle cure mediche”. Nell’introduzione ai lavori l’avv. Giorgio Pallucco, direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute, nonché della Caritas diocesana, ha sintetizzato le finalità del convegno: «avviare una riflessione olistica sulla cura della persona. In concreto: nella cura della persona è necessario andare oltre la dimensione corporea e considerare pure quelle della mente e dello spirito. Questo tipo di approccio può contribuire a migliorare la qualità della vita della persona malata».
L’arcivescovo di Spoleto-Norcia, mons. Renato Boccardo, nel saluto iniziale, dopo aver ringraziato i relatori e quanti intervenuti, ha sottolineato come questo momento di riflessione sia la prima uscita pubblica dell’Ufficio per la Pastorale della Salute, quel prezioso servizio che la Chiesa reca, alla luce e alla grazia del Signore, a coloro che soffrono e a quanti se ne prendono cura. «Non è rivolto – sottolineato il Presule – solo ai malati, ma anche ai sani, ispirando una cultura più sensibile alla sofferenza, all’emarginazione e ai valori della vita e della salute, come ci ricorda papa Francesco».
Il card. Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita, ha tenuto la Lectio magistralis. Il Porporato ha brevemente ripercorso le tappe del Testamento di Vita, sorto con un Manifesto nel 1974, che consente all’uomo, in base al principio di autonomia dei cittadini, di poter decidere come essere trattato in punto di morte, chiedendo addirittura di anticiparla. Si legge in suddetto documento: “L’uomo sorto dal caso e dalla necessità è arbitro di sé…non deve rispondere a nessun altro del proprio destino…È immorale accettare o ignorare la sofferenza. L’eutanasia umanitaria provoca una morte rapida e indolore. È crudele e barbaro esigere che una persona venga mantenuta in vita contro il suo volere, quando la vita ha perduto qualsiasi dignità, bellezza, significato”. «Queste affermazioni – ha ricordato Sgreccia – sono inserite nella cosiddetta cultura secolare nella quale il mondo occidentale è immerso e che si fonda sulla valorizzazione della realtà terrena, sull’autonomia della scienza dalla teologia e dalla morale, sull’autonomia dell’Io individuale (la vita e la mia e la gestisco io). Ciò ha provocato, soprattutto nel ‘900, divisioni, guerre, dispersioni, allontanamento dalla figura di Dio creatore, dimenticando che la vita non è autocreata dall’uomo. Essa non è disponibile, non se ne può disporre liberamente, ma dipende da Dio creatore». Dopo questa indispensabile premessa, il Cardinale si è addentrato nel tema terapie e cure verso un malato grave. «Curare il dolore con mezzi proporzionati – ha detto – è cosa divina». Ha proposto quattro tipi di situazioni in cui ci si può trovare nella cura di una persona. La prima prevede terapie straordinarie (non c’è più nulla da fare) e sproporzionate (pochi i mezzi per poter intervenire): in questo caso c’è accanimento terapeutico. È necessario far capire al paziente e ai familiari che è opportuno fermare la terapie (non le cure, ndr). La seconda prevede terapie straordinarie (non c’è più nulla da fare) e proporzionate (ci sono i mezzi per intervenire): in questo caso decide il paziente. La terza situazione prevede terapie ordinarie (c’è ancora qualcosa da fare) e sproporzionate (è necessario andare dall’altra parte del mondo per le terapie): non accanirsi con le terapie e non sprecare le forze (continuare, però, le cure, ndr). L’ultima prevede terapie ordinarie (c’è ancora qualcosa da fare) e proporzionate (ci sono i mezzi): le cure sono obbligatorie. «In ogni di queste situazioni – ha detto il Cardinale – il paziente va accompagnato lenendo il suo dolore (lecite e raccomandabili le cure palliative) e idratandolo ed alimentandolo sempre, anche in modo artificiale».
Dopo la Lectio magistralis di Sgreccia, il camilliano padre Arnaldo Pangrazzi, è intervenuto sul tema “Farsi compagni nell’ultimo viaggio”. Con una modalità di esposizione coinvolgente, con passione, umanità, delicatezza e competenza ha esordito dicendo che nell’attuale società si è occultato il morire, il rendersi conto che prima o poi arriverà la morte. «Il morire, quando è preparato, può essere – ha detto – un’opportunità per guarire le ferite della vita. Coloro che accompagnano alla morte le persone (medici, infermieri, preti, familiari, religiosi ecc…) hanno evidenti difficoltà nel gestire i loro sentimenti, intrisi di tristezza, vergogna e paura. Noi “professionisti” siamo in crisi e rispondiamo ai loro dubbi con un “non ti preoccupare”, “non piangere che tutto passerà”. È bene sapere – ha proseguito – che ogni persona che soffre è portatrice di ferite e di risorse. A noi, il compito di ascoltare le ferite e risvegliare le risorse, per umanizzare la morte. Da ricordare, poi, – ha proseguito padre Pangrazzi – che le paure di un malato hanno diversi volti (dolore fisico, l’ignoto, il giudizio di Dio, la separazione dai propri cari, l’essere di peso, il degrado fisico, la perdita di controllo e di dignità, la solitudine, l’inutilità, l’abbandono, l’annullamento totale) ed esse non si leniscono con i farmaci, ma con la vicinanza, l’umanità, la spiritualità. E chi si avvicina ad un malato morente deve relazionarsi con lui e non con la malattia, deve mantenere una postura aperta e serena, deve rispettare i modi diversi di affrontare il morire, deve coltivare un ascolto empatico, deve offrire accoglienza ai diversi sentimenti, deve apprendere a convivere col silenzio altrui, deve offrire sostegno ai familiari, deve educare a scoprire i diversi orizzonti della speranza, deve facilitare l’addio attraverso l’espressione di messaggi verbali e non, deve offrire il conforto della preghiera, dei sacramenti o di valori spirituali. L’equipe curante, invece, – ha concluso il padre camilliano – ha il compito di: aiutare il paziente e i familiari a vivere nel modo migliore la fase del cordoglio anticipatorio; aiutare i familiari a considerare viva la persona, nel percorso del morire; aiutare i familiari a scegliere la migliore forma di assistenza per il loro caro; aiutare a concludere l’incompiuto e a dirsi addio».
Subito dopo è stata avviata una tavola rotonda moderata dal dott. Luca Sapori, Direttore sanitario dell’Ospedale di Spoleto. Sono intervenuti: dott. Elio Giannetti, Medico di medicina generale, distretto socio-sanitario di Spoleto; dott.ssa Maura Betti, Medico oncologo, ospedale di Spoleto; dott. Graziano Ceccarelli, Medico chirurgo, ospedale di Spoleto; dott. Fabio Conforti, Medico all’Hospice “La Torre sul Colle” di Spoleto. Giannetti, che nel 1988 propose a Spoleto le cure palliative, ha sottolineato come nel rapporto con un morente nulla è scontato o definitivo. Ai presenti ha raccontano, con la voce rotta dall’emozione, i sentimenti che entrano in gioco accompagnando le persone alla morte e che nessun libro scientifico o corso universitario può fornire: «È un’esperienza umana – ha detto – che apprendi sul campo, relazionandoti con i malati e i loro familiari». La dott.ssa Maura Betti, oncologo, ha detto che una diagnosi di cancro è vista, dal malato ma anche in ambienti medici, come una sentenza di morte. «Il paziente, se consapevole, può ogni giorno riassaporare piccoli momenti di “guarigione”: il ricordo di un evento gioioso del passato o il sapere che un figlio si sta per sposare e la richiesta a noi medici di vivere almeno fin a quel giorno e altro». Il dott. Graziano Ceccarelli, chirurgo, ha sottolineato come per un medico sia più facile risolvere un problema tecnico che non la relazione col paziente. «Diveniamo – ha detto – come dei familiari per il malato e il nostro legame durerà per sempre, anche quando le “mie” cure saranno inutili». Da ultimo il dott. Fabio Conforti, palliativista, ha invitato i presenti a riflettere se è ancora giusto parlare di morte naturale considerando che solo il 10% dei decessi avviene per cause naturali (infarto, incidente, vecchiaia ecc…), mentre il 90% è causato da malattie.
Le conclusioni sono state affidate a don Carmine Arice, direttore dell’Ufficio di Pastorale della Salute della Conferenza Episcopale Italiana. Ha sintetizzato il convegno in cinque punti chiave: la constatazione del non parlare della morte; trattare il morente sempre come un vivente; relazione ontologica col malato; solidarietà come cura alla solitudine del paziente; importanza dell’accompagnamento del morente. Quattro, invece, sono le piste che don Arice ha lasciato “in eredità” alla Pastorale diocesana della Salute, sulle quali riflettere nel prossimo futuro: impegno nella formazione per una cura olistica (corpo, mente e spirito) della persona; impegno culturale per la vita: la Pastorale della Salute deve uscire sempre più a vita pubblica e dialogare con la cultura di questo tempo; impegno pastorale: con speranza e linguaggi nuovi accompagnare le persone morenti all’incontro con Dio; impegno operativo: accompagnare le parole con dei segni visibili della Chiesa, come può essere un centro di ascolto per le persone malate e i loro familiari.