Festa della Presentazione al Tempio
Madonna della Stella, 2 febbraio 2012
Oggi Gesù è presentato all’eterno Padre nel Tempio di Gerusalemme. E noi, attraverso la liturgia che stiamo celebrando, siamo invitati ad unirci a Lui per rinnovare la nostra consacrazione, battesimale e religiosa o sacerdotale. Che cosa significa essere consacrati? Significa – lo sappiamo bene – appartenere a Dio solo; vuol dire restituire a Dio una serie di doni molteplici di cui siamo come fasciati fin dall’eternità; vuol dire unirsi a Cristo che si offre al Padre e agli uomini giorno dopo giorno. E non possiamo non richiamare alla memoria del cuore il momento in cui anche noi, come fra poco faranno le nostre sorelle Fatima e Agrippina, abbiamo risposto trepidanti alla chiamata del Signore per “giocare con lui” tutta la nostra vita.
La questione che si pone immediatamente è di sapere come si possa anticipare la propria esistenza al punto da impegnare in un dato istante tutto il proprio avvenire e il proprio destino. Perché non si tratta neppure di impegnarsi in qualcosa di cui si possano tracciare i limiti e i contorni e neppure di darsi una sicurezza; si tratta di rimettersi in maniera incondizionata a Colui che è riconosciuto come il tutto della vita. E ciò costituisce un’ardua prova, perché sappiamo benissimo che non lo possiamo fare da soli.
E tuttavia, se donne e uomini lungo i secoli intraprendono un tale cammino è perché osano credere che è Dio a chiederglielo. Una cosa infatti è prendere delle decisioni che dipendono dalla propria volontà e tutt’altra cosa è fondare la propria decisione sulla fedeltà di Dio. Vocazione vuol dire proprio fidarsi di Dio che chiama: «Eccomi, Signore, accetto».
La domanda, allora, non è: «Sarò capace di rispondere?», perché se è Dio che chiama, sarà lui a sapere perché chiama e come chiama. Quando Dio corre questo rischio con noi, noi dobbiamo accettare di correre questo rischio con lui. Non dobbiamo porre delle condizioni, ma fare un gesto, quello di metterci totalmente nelle sue mani. L’obbedienza della fede nella vocazione è un rimettersi a Dio, come quando Cristo si è affidato alle mani del Padre (cf Lc 23, 46).
Porre la questione in questi termini significa riconoscere fino a che punto, in ogni momento dell’esistenza, siamo chiamati ad un atteggiamento che si chiama fede; è riconoscere che questo mettere se stessi nelle mani di Dio è l’atteggiamento stesso di Cristo, è affermare che al di fuori di una comunione con la sua stessa esistenza non può esservi risposta vera ad una vocazione. Qual è infatti la nostra vocazione se non quella di compiere nella vita la scelta delle Beatitudini? E come potremmo farlo se non appoggiandoci solo a Dio?
Tanto la chiamata che noi tutti abbiamo avuto, ciascuno nel posto in cui si trova, se l’accogliamo nella ristrettezza della nostra vita personale può non di rado apparirci difficile da sostenere, oscura e onerosa, altrettanto, se noi la consideriamo come una vocazione ecclesiale, per
Se noi infatti siamo chiamati ad essere discepoli di Cristo, consacrati per essere «come lui», conformati alla sua Passione nella povertà secondo il suo volere, nell’obbedienza o nel distacco da noi stessi secondo il suo volere, nella castità e nella solitudine secondo il suo volere, è per realizzare adesso nella Chiesa e mediante lo Spirito la figura del Cristo; è per portare visibilmente la gioia delle Beatitudini. Questa vocazione non è una scelta soggettiva e personale di qualcuno che ha quest’idea e che è preso interiormente da un desiderio di consacrarsi a Dio o di dedicarsi a questa o a quell’esperienza spirituale, come altri possono essere trascinati da una passione estetica o da una passione politica, dal desiderio del potere o da quello del denaro. Non si tratta di un gusto connaturato al cuore dell’uomo e che l’uomo soddisfa come gli piace. Se Sr. Fatima e Sr. Agrippina oggi, se noi un giorno più o meno lontano, abbiamo risposto «si» all’impegno che abbiamo deciso di assumere, non è perché questo a noi piace o interessa, perché questo ci soddisfi o ci rallegri, ma è perché Dio ci ha voluto scegliere per affidarci la missione di portare in questo mondo la sua speranza e di svelare il Volto del suo Cristo.
Quanti sono così chiamati per grazia devono sentirne una grande gioia poiché, nella loro debolezza, è
Così, in ogni giorno della nostra vita noi riceviamo nelle nostre mani, per condividerlo con gli altri, il perdono dato da Colui che porta il peccato del mondo; riceviamo nel nostro cuore la speranza della pace di Colui che riconcilia il mondo mediante il sangue della sua croce; portiamo la ricchezza di chi si è fatto povero per arricchirci della sua povertà (cf 2 Cor 8, 9).
Con ciò, le nostre vocazioni individuali e particolari sono nella Chiesa dei segni della comune vocazione alla quale tutti siamo chiamati. Voi perciò, care sorelle Agrippina e Fatima, e tutti noi non ci inoltriamo solitari in una scelta difficile, anche se la nostra fedeltà dovremo effettivamente viverla da soli. Ma questa solitudine a cui abbiamo parte è quella di Cristo e di tutti gli eletti. Avremo da condividere la felicità di Cristo fra le lacrime. Avremo da condividere la misericordia di Cristo nella misericordia ricevuta. Avremo da condividere il banchetto di Cristo nella fame. E avremo forse da condividere la pace di Cristo nella persecuzione. Tale è
In questa luce, riascoltiamo allora ed accogliamo come diretto a ciascuno di noi l’invito pressante che proprio qui, 150 anni orsono, al Madre del Signore ha rivolto al piccolo Righetto. La risposta all’esortazione materna ad “essere buono” si declina per noi nella fedeltà gioiosa agli impegni della nostra consacrazione, con i quali esprimiamo il nostro amore per il Signore, scelto come unico e sommo bene, nella dedizione alla Chiesa e ai fratelli, riconosciuti come la famiglia che Dio ci ha dato, nel servizio all’umanità, nella quale Iddio ci ha posti come segno della sua fedeltà e del suo amore.