Omelia nella Messa Crismale, Duomo di Spoleto, 31 marzo 2021

Omelia nella Messa Crismale, Duomo di Spoleto, 31 marzo 2021

Omelia nella Messa Crismale, Duomo di Spoleto, 31 marzo 2021

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Omelia nella Messa Crismale, Duomo di Spoleto, 31 marzo 2021

«Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4, 21). La parola profetica che Gesù ha dichiarato compiuta in se stesso si attualizza ancora una volta misteriosamente nelle nostre povere persone e nel gesto sacramentale che stiamo per vivere celebrando la memoria sempre viva del nostro sacerdozio. Ci raccogliamo fraternamente attorno a chi ricorda un particolare anniversario: padre Giuseppe Spaccasassi e padre Gregorio Cibwabwa Lwaba, degli Agostiniani di Santa Rita di Spoleto, e padre Maurizio Buioni, dei Passionisti della Madonna della Stella: 25 anni; Mons. Gino Reali, don Rinaldo Cesarini, don Paolo Peciola e don Luciano Nobili, dei Missionari del Preziosissimo Sangue: 50 anni; don Gaetano Conocchia: 60 anni; Mons. Vincenzo Alimenti, don Elio Zocchi e don Guerrino Conti: 65 anni.

Siamo convocati questa sera nella più intima comunione ministeriale per aprire le sorgenti nuove della grazia che si diffonderà per un anno intero sulla Chiesa di Spoleto-Norcia: sarà da questa fonte inesausta – che noi renderemo attuale nel nome e nella persona di Cristo, sotto l’azione dello Spirito Santo – che la nostra comunità diocesana verrà di giorno in giorno riedificata, purificata e vivificata per un rapporto vitale con il suo Signore. Per questo possiamo applicare anche a ciascuno di noi le parole impegnative e solenni pronunciate da Gesù nella sinagoga di Nazaret: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione» (Is 61, 1). Ministri di Cristo, uniti a lui in modo singolare, pur restando nell’ambito del popolo di Dio di cui siamo membri, noi garantiamo l’esercizio del suo sacerdozio e siamo destinati a renderne presente l’opera redentrice, ad essere protagonisti umili, ma grandi e indispensabili, della storia della salvezza, che continua e si attua nella economia sacramentaria. In virtù dell’Ordine sacro ricevuto noi siamo – e il rito di oggi ce lo ricorda con particolare intensità – «i servi di Cristo e i dispensatori dei misteri di Dio» (1 Cor 4, 1).

Ciò comporta innanzitutto una considerazione che ci conduce a riflettere su quello che siamo prima ancora che su quello che facciamo. Veniamo da una misteriosa storia d’amore: «Chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui», racconta l’evangelista Marco (Mc 3, 13). «Quelli che voleva»: cioè non quelli che a lui piaceva, quelli che gli erano venuti in mente, ma piuttosto – secondo il verbo ebraico – “quelli che aveva in cuore” (cf Mt 27, 43; Sal 22, 9). Non c’è nessuna qualità, nessuna bellezza o attrattiva in chi è chiamato, ma è Gesù che lo ha in cuore e lo sceglie con amore appassionato. È una storia che colma di gioia, quando si scopre il peso, soave e tremendo, di una scelta irreversibile da parte di Cristo, non meritata, non cercata, eppure trepidamente amata e voluta. Il sacerdozio è partecipazione al sacerdozio eterno di Cristo, «il testimone fedele, … Colui che è, che era e che viene» (Ap 1, 5. 8); è partecipazione alla sua carità pastorale e a quel suo amore forte che può guarire la nostra società dalle infedeltà, dall’indifferenza, dall’idolatria, dalla violenza. Per questo siamo chiamati ogni giorno ad imparare da Gesù nell’Eucaristia ad amare la gente come Lui la ama e a donare noi stessi come Lui si dona. Il ministero che abbiamo ricevuto ci chiede di farci compagni di viaggio dell’umanità senza possedere le persone ma aiutandole a crescere nella vera libertà; nostra missione è confortare e consolare, ma insieme anche inquietare, proponendo con coraggio i valori del Vangelo; nostro compito è condividere i dolori e le sofferenze, le gioie e le speranze degli uomini e delle donne nostri contemporanei, liberandoli dalla paura e aprendoli ad orizzonti di serenità e di pace interiore.

E allorché lungo il cammino avvertiamo con timore e tremore la povertà, la fragilità, l’incapacità, sappiamo che il Signore ci custodisce nelle sue mani e ci sostiene allargando gli orizzonti della nostra vita perché è Lui che mette sulla nostra bocca le parole da annunciare e ci è vicino in ogni momento con la sua consolazione: «Io sarò con te e ti benedirò» (Gen 26, 3). Per questo, pur riconoscendoci tanto diversi dal tempo più o meno lontano della nostra ordinazione presbiterale, ci riconosciamo anche tanto uguali, e con la stessa volontà che ci rende capaci di rivivere il fervore e il sì di quell’ora decisiva della nostra vita. Perciò fra poco rinnoveremo insieme gli impegni assunti quel giorno e ripeteremo, con gioiosa e commossa gratitudine, le parole del salmista: «Che cosa renderò al Signore per tutti i benefici che mi ha fatto? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore» (Sal 116, 12-13).

Ma Gesù, dopo aver evocato la consacrazione, parla della missione: «Mi ha mandato a portare un lieto annuncio, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (61, 1-2). Anche a noi è stato affidato un mandato, al quale sentiamo più urgente che mai il dovere di rispondere, mentre risuona nel nostro cuore la provocazione di Gesù che si chiede se, al suo ritorno nella gloria, troverà ancora fede sulla terra (cf Lc 18, 8). Non si chiede se troverà ancora le parrocchie, i conventi, le associazioni, i movimenti; nemmeno se troverà ancora il Vaticano. Si chiede se troverà la fede. Cari Confratelli, in questo tempo faticoso e difficile per tutti, manteniamo alta la fede e la speranza innanzitutto con il nostro modo di vivere e di offrire un esempio di unità e comunione reciproca, e di prossimità a tutti coloro che sono nella prova e nel bisogno, coltivando scrupolosamente quello che è il primo servizio da garantire alla nostra gente: quello della santità. Il popolo di Dio ha bisogno e reclama presbiteri santi, che facciano della preghiera e della contemplazione la testimonianza visibile del loro amore per Cristo e per gli uomini.

Accanto a questa dimensione che definirei più prettamente “personale”, troviamo quella cosiddetta “apostolica”, che si riferisce alla nostra attività pastorale, chiamata a rinnovarsi profondamente e a percorrere le nuove strade che iniziamo ad intravvedere nella situazione straordinaria che stiamo vivendo. Ricordando le esortazioni di Papa Francesco, ci domandiamo dunque quale lezione possiamo imparare dalla pandemia, qual è la grazia nascosta dentro la crisi che stiamo vivendo, qual è il tesoro disseminato nel campo di questo tempo incerto, per il quale dobbiamo vendere tutto (cf Mt 13, 44). Non potrebbe essere questo il momento storico per chiederci che tipo di persone vogliamo essere e che tipo di Chiesa vogliamo costruire? Riportiamo la Chiesa nella situazione nella quale si trovava prima del Coronavirus o la ridisegniamo daccapo? Oppure, la domanda potrebbe formularsi anche così: come fare del ritorno ad una vita cosiddetta “normale” – che auspichiamo non troppo lontano nel tempo – un’esperienza di conversione pastorale? L’operazione da compiere inizia con il necessario esercizio «di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è» (Papa Francesco, Preghiera del 27 marzo 2020 in piazza San Pietro).

Dovremo di certo riprendere le attività pastorali e tutto ciò che occorre perché la fede del popolo di Dio riceva il suo nutrimento quotidiano. Tuttavia questa crisi – sopraggiunta in un tempo già segnato da una crescente disaffezione nei confronti della fede e da un lento ma progressivo indebolimento dell’appartenenza ecclesiale, caratterizzato dall’impoverimento della dimensione spirituale dell’esistenza, dalla minore partecipazione alla vita comunitaria, dalla difficoltà a condividere domande di senso con i giovani e gli adulti, dalla fragile generatività vocazionale – ci chiede di riflettere seriamente prima di riempire le nostre agende parrocchiali. Dobbiamo semplicemente ritornare come prima? Dobbiamo riprendere a celebrare le stesse messe di prima e nelle stesse identiche modalità? Dobbiamo ricuperare lo stesso impianto pastorale e appiccicarlo a questo tempo nuovo? Il seme della Parola, circolato nelle case e con ogni altro mezzo deve essere ritenuto un’eccezionalità da riporre velocemente nel dimenticatoio o, piuttosto, dovremmo considerare come l’avevamo trascurato, preferendo un cristianesimo devozionistico, superficiale, sacramentalizzato, senza percorsi formativi, senza spazi culturali, senza fede domestica e senza la centralità della Scrittura?

Non ci sono risposte facili, ma almeno possiamo provare a porci le domande. Se ci volgiamo indietro, perderemo l’ora del passaggio di Dio che desidera far nuove tutte le cose (cf Ap 21, 5). Ascoltiamo ancora il Papa: «Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» (EG 33). È la sfida che vogliamo raccogliere insieme per il percorso quotidiano delle parrocchie e delle Pievanie, chiamate ad imprimere alla vita e all’attività quotidiana un autentico slancio missionario affinché la Buona Novella sia da tutti conosciuta, sperimentata e amata.

Cari Confratelli, torniamo a fissare l’attenzione sul mandato che incombe a ciascuno di noi, chiamati ad essere nel tempo presenza sacramentale di Cristo sacerdote e pastore. Da questo mandato scaturisce l’invito ad approfondire quella che potremmo chiamare specificamente “la coscienza apostolica vissuta nel momento presente”. È il Signore risorto e vivente che ogni giorno, per la voce esterna della Chiesa e per la voce e l’unzione interiore dello Spirito Santo, manda me e te e tutti noi per una missione da compiere oggi, che ha senso per l’oggi e ha un significato cruciale per la gente di oggi. Ciascuno di noi si sente interpellato dalla voce di Dio che risuona nel tempio e domanda: «Chi manderò e chi andrà per noi?» (Is 6, 8). E se forse, soprattutto dopo esserci resi conto di quanto arduo sia il ministero apostolico, non abbiamo sempre il coraggio o la prontezza di dire: «Eccomi, manda me» (ib.), ci conforta in ogni caso la promessa di Gesù: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).

La seconda conseguenza di una “coscienza apostolica” è quella di guardarsi intorno con fiducia, cercando la traduzione concreta per l’oggi della chiamata che ha toccato il fondo della nostra vita e la determina in tutti i suoi particolari. Se il Signore ci manda per questo oggi del mondo non mancherà di farci vedere, passo dopo passo, quali percorsi e quali scelte comporta il mandato ricevuto. È vero che non di rado ci domandiamo se i cammini che stiamo percorrendo siano giusti o se siano i più efficaci e se e come debbano essere rinnovati. Ma viene certamente dal Maligno quel senso di confusione o di amarezza o di frustrazione che talora ci agita e ci fa perdere la serenità dell’impegno. Mentre è dono e consolazione dello Spirito la fiducia che il Signore ci sta guidando anche qui e ora, anche nella nebbia e nella notte e che sarà lui a correggere e a pilotare i nostri cammini incerti quando li compiamo con fiducia totale nella sua guida e nel suo mandato.

È il dono dello Spirito che vogliamo implorare questa sera per tutto il nostro presbiterio e per ciascuno di noi: una coscienza profonda della nostra identità e della nostra missione, dove risiede la nostra risorsa fondamentale, la nostra forza e la sorgente della nostra gioia. È dalla certezza che il Signore ancora oggi ci manda e si fa carico del nostro cammino che saremo aiutati nella fede per vivere il ministero con autentica passione evangelica e audacia apostolica. È sulla base di questa intuizione fondamentale che sentiamo di dover favorire un incremento di fraternità e di comunione tra noi, che vogliamo discernere le situazioni della nostra società per agire di fronte ad essa come presbiterio cosciente dei suoi compiti, che non teme le difficoltà né i problemi nuovi proprio perché ha una risorsa inesauribile dentro di sé: la consapevolezza cioè di avere ricevuto da Gesù risorto una missione vitale e irrinunciabile per il mondo di oggi.

«A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen» (Ap 1, 5-6).

 

Parole dell’Arcivescovo al termine della Messa

Al termine di questa celebrazione solenne, sempre ricca di contenuti e di significato, desidero ancora dirvi qualche cosa. E faccio appello alla vostra pazienza…La prima parola è un grazie sentito a voi, fratelli e sorelle, convenuti questa sera. Vediamo in voi i rappresentanti delle comunità parrocchiali della nostra diocesi, trattenuti a casa a causa del Covid-19. Tutti voi siete i destinatari della nostra azione apostolica. Non per noi, infatti, ci è stato partecipato il sacerdozio di Cristo ma per voi, per accompagnarvi come fratelli premurosi sulle strade del Vangelo. Vi ringraziamo per la vostra compagnia e per il sostegno di amicizia, di preghiera e di aiuto concreto che assicurate al nostro ministero e vi chiediamo perdono se non sempre siamo capaci di riprodurre in mezzo a voi l’immagine luminosa di Gesù buon pastore.

Da questa che è la chiesa-madre di tutta la diocesi, insieme con i sacerdoti qui presenti, desidero far giungere un saluto di pace e benedizione a tutte le comunità che compongono la nostra Chiesa locale e ne costituiscono la vera ricchezza. Da qui desidero annunciare che ho deciso di intraprendere dal prossimo autunno la seconda Visita pastorale del mio episcopato. Me ne offre l’occasione l’825.mo anniversario della dedicazione di questa Basilica Cattedrale, che celebreremo nel 2023 con opportune iniziative. La Visita sarà un momento di grazia che ci permetterà di riascoltare il lieto annuncio della Buona Novella, di rinsaldare i legami di conoscenza e di comunione che già ci uniscono, di approfondire e vivificare la nostra comune appartenenza alla Chiesa diocesana. Affido fin da ora alla vostra preghiera questo mio farmi pellegrino verso il popolo che mi è affidato, per contemplare il mistero che Cristo continua a plasmare nell’anima e nella vita dei credenti.

Da qualche tempo, poi, hanno avuto inizio l’”Anno di San Giuseppe”, indetto da Papa Francesco per presentare la figura dello sposo di Maria ed invitarci a riflettere sulla dimensione “paterna” delle nostre relazioni interpersonali, e l’”Anno della famiglia Amoris lætitia”, che ci richiama alla bellezza dell’amore famigliare. Guardando alla paternità e considerando le fatiche che accompagnano la vita di tanti, insieme con la Caritas diocesana e la collaborazione della parrocchia di Montefalco, vogliamo dare un piccolo segno di vicinanza e di aiuto a quei padri che ora vivono il dolore di un amore ferito o terminato: dal 1° maggio prossimo, memoria di San Giuseppe lavoratore, sarà attiva la “Casa Patris corde” per padri-separati socialmente deboli ed economicamente in difficoltà. Si tratta di una struttura polivalente che, oltre ad offrire la possibilità di una soluzione abitativa adeguata, può essere luogo di incontro tra genitori separati e figli, luogo di ascolto e relazioni. Anche per questa iniziativa chiedo la vostra collaborazione e la vostra preghiera.

Infine a voi, cari fratelli sacerdoti: dopo aver rinnovato il nostro impegno a vivere in maniera sempre più degna la vocazione ricevuta, abbiamo benedetto il crisma e l’olio dei catecumeni e degli infermi per sottolineare il mistero della Chiesa come sacramento di Cristo, che santifica ogni realtà e situazione di vita. A voi sono ora affidati questi santi Olii perché, attraverso il vostro ministero, la grazia divina fluisca nelle anime, apportatrice di forza e di vita. Conservateli con cura particolare quali strumenti della grazia dell’Onnipotente: le persone, i luoghi e le cose che con essi riceveranno l’unzione possano risplendere della stessa santità di Dio, che per un dono mirabile del suo amore ha voluto che nei segni sacramentali si rinnovassero misticamente gli eventi della storia della salvezza.

 

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